Per un caso tanto fortuito quanto intrigante, alla fine della scorsa settimana sono stati pubblicati in contemporanea i nuovi dischi di quelli che possono senza remore essere considerati i padrini dell’indie rock italiano: Cristiano Godano con i suoi Marlene Kuntz, e Manuel Agnelli, per la prima volta in azione da solista, senza che per questo abbia dimenticato gli Afterhours. Mai l’attesa era stata così lunga, poiché sia Afterhours che Marlene avevano pubblicato il loro ultimo album di inediti nel 2016, una vita fa.
Una vita, a livello musicale, un periodo in cui in Italia è successo un po’ di tutto, dall’esplosione dell’it-pop a quella della trap, al consolidamento di fenomeni come quello dei talent show e relative conseguenze (caso Måneskin su tutti). Il rock italico di Marlene Kuntz e Afterhours, che nei lontani anni Novanta era quasi avanguardia per quello che offriva il panorama musicale, negli anni Dieci del nuovo millennio si era ritrovato vecchio, fuori dai giochi delle nuove generazioni sedotte dal rap e dal revival dei suoni electro degli anni Ottanta. Ma Agnelli e Godano sono troppo intelligenti per non capire il rischio di diventare un totem per il pubblico di boomer che li segue dagli esordi, ed evitano di riproporsi uguali a sé stessi, reinventandosi, seppur nel segno di una indubbia continuità stilistica.
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Il fatto è in realtà molto semplice: questi due dischi sono veramente buoni, decisamente sopra la media di quello che offre il pop italiano di questi anni. Probabilmente questo non basta, affinché i giovanissimi si accorgano di questi signori ultracinquantenni così diversi, in definitiva, dalle popstar affermate di questi tempi. Ma loro fanno in sostanza quello che si può chiedere un artista: si esprimono al meglio in quello che è il loro ambito, e lo comunicano efficacemente: in altre parole, suonano delle bellissime canzoni.
Karma Clima (Ala Bianca/Warner) porta i Marlene Kuntz in una nuova dimensione, creando un ponte ideale tra passato e futuro. Il pezzo che esemplifica meglio questa tendenza è “La fuga”, il primo singolo, che impasta mirabilmente le chitarre noise dei bei tempi e un pianoforte classico di seducente eleganza. Ma è un disco pieno di sorprese, che spiazzerà i fans tradizionali, e che a noi invece piace proprio per il suo coraggio nel battere strade inaspettate.
Citiamo lo strambo incedere ritmico di “Acqua e fuoco”, con un originalissimo arrangiamento di archi; le tastiere sempre più protagoniste, impatto decisivo del nuovo arrivato Davide Arneodo, come nel loop analogico di “Lacrima” o nel suono tra piano e synth di “Scusami”; la disinvoltura nel cambiare registro nel cantato di Godano, dal finto hip hop di “Tutto tace” (che richiama chiaramente “Nuotando nell’aria”) al mood romantico e intimo di “Laica preghiera”, in un sorprendente duetto con Elisa.
Il valore aggiunto dell’album sta poi nel concept, incentrato sul cambiamento climatico e le sue drammatiche conseguenze, che risveglia (e non è la prima volta) l’anima politica del gruppo. In questo i Marlene si pongono come tramite ideale per comunicare con un pubblico di giovani e meno giovani, riuniti nella condivisione di un pensiero comune. Da anni Godano & company sono peraltro molto attivi sui social, diffondono sul web messaggi dal contenuto inequivocabile, e forse il loro futuro extra musicale sarà proprio quello di facilitatori del dialogo per creare una nuova coscienza collettiva per il loro pubblico. Chissà.
Con Manuel Agnelli, da questo punto di vista siamo agli antipodi. Il suo nuovo album, Ama il prossimo tuo come te stesso (Island/Universal), fa pensare a un universo immaginario costruito attorno alla personalità dirompente del suo attore protagonista. E non perché si tratti di un album solista in cui fa tutto lui, anche se in effetti Manuel suona la maggioranza degli strumenti; no, è piuttosto un volersi esporre in prima persona, raccontarsi attraverso testi un po’ crudi e un po’ surreali, offrirsi senza timore al pubblico dicendo “eccomi, io sono fatto così, non intendo fare nulla per compiacervi: prendere o lasciare”.
Non sembra un caso che, oltre al titolo che suona a questo punto quasi (auto)sarcastico, la prima parola cantata sia “io”. Ma si sa da tempo quanto Agnelli ami sentirsi al centro della scena: il risultato più evidente della sua partecipazione a X-Factor alla fine è la dimostrazione che la sua forza individuale ha vinto sul sistema – se lui non è riuscito nella mission impossible di cambiare i contenuti di un talent, la cosa che importa è che la TV non ha minimamente condizionato l’uomo. Un atteggiamento certo un po’ presuntuoso, che rende il personaggio antipatico a molti per non cercare alcuna complicità col pubblico; ma che attesta al contempo la sua statura artistica, che si afferma senza nessun bisogno di adesioni a priori, e osa esprimersi senza condizionamento alcuno.
Per questo sull’album è facile trovare pezzi in cui convivono melodie romantiche e rumorismi assortiti, immagini forti e provocatorie tra spaziature dolcissime e distorsioni estreme (“Tra mille anni mille anni fa”, “Signorina mani avanti”, “Milano con la peste”, “Guerra e pop corn”). E poi ancora un noise rock spettacolare dal killer riff come “Severodonetsk”, in contrapposizione al soave intimismo della title track; oppure una canzone semplicemente perfetta (in sound, costruzione, atmosfere ed esecuzione) come la ben nota “La profondità degli abissi”. Non chiedete a Manuel Agnelli di venirvi incontro, fatevi piuttosto investire dal suo pathos: ne avrete gran beneficio.
Eccoli, i grandi vecchi del rock italiano. Esperti e maturi, ma più in forma che mai.
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