Alla (ri)scoperta dello Yacht Rock

Il film HBO Yacht Rock: A Dockumentary è qualcosa di più di un documentario sulla nostalgia    

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Nelle pagine di Reddit relative a Yacht Rock: A Dockumentary, il documentario HBO di Garrett Price dedicato alla scena californiana tra la metà degli anni Settanta e l’inizio dell’èra di MTV, un gran numero di utenti esprime senza riserva la propria riprovazione per il film (o meglio per la musica che va a celebrare).

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Una caustica recensione firmata da Roger Friedman è ancora più impietosa: “Nel 1981 le persone intelligenti ascoltavano Prince, Talking Heads, Blondie, The Police, Elvis Costello, il primo rap, i Ramones e così via. Quest'altra roba era da evitare come la peste”.

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Non faccio fatica a immaginare una buona parte della mia “bolla” in coda per sottoscrivere le parole di Friedman e proprio da questo pregiudizio in un certo senso prende il via il film, un lavoro strutturato - con una rimarchevole freschezza, va detto - come i classici documentari musicali, alternando interviste a protagonisti e commentatori a filmati del periodo.

Yacht Rock: un termine che fino a pochi anni fa non esisteva e che ha progressivamente - non senza qualche dissenso - preso piede per definire un ventaglio di esperienze soft-rock orecchiabile e influenzato dal jazz, prevalentemente suonato da versatili turnisti della scena Losangelina e di grande successo radiofonico.

Un soft-rock caratterizzato dal suono del pianoforte elettrico Fender Rhodes, da armonie sofisticate, testi introspettivi e una grande accuratezza produttiva, portatore di una sorta di allegria vacanziera venata di malinconia e socialmente poco impegnata.

Non tutto il soft-rock è Yacht Rock, nel documentario è ben spiegato: non si parla di Hall&Oates in quanto troppo Philly-sound, non si parla di Fleetwood Mac in quanto per nulla jazz, non si parla di Eagles perchè troppo country, concentrando così la narrazione sull’asse Steely Dan - Doobie Brothers - Kenny Loggins - Christopher Cross - Toto e un po’ tutto quello che girava attorno a session men come i fratelli Porcaro, Jay Graydon, Tom Scott e così via.

Scorrono così le storie di questi musicisti, i loro successi e l’intreccio quasi incestuoso tra i tanti dischi che tra il 1976 e i primissimi anni Ottanta fanno incetta di Grammy e di popolarità, canzoni come “Ride Like A Wind” o “What A Fool Believes” che accompagnano ancora soavemente chi attende il suo turno dal dentista o al bar dello stabilimento balneare.

Yacht Rock: un termine che fino a pochi anni fa non esisteva e che viene “inventato” (il berretto di Captain del duo Captain&Tennille e l’ispirazione Beachboyesca hanno aiutato) dagli autori dell’omonima web-series del 2005, una serie comica che prendeva apertamente in giro i protagonisti di quella stagione musicale. Di là, complice una rinnovata attenzione per sonorità spensierate e suoni come quelli del city-pop giapponese o della scena vaporwave, la progressiva ridefinizione identitaria del periodo. 

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Pensiamoci un attimo: un’intera scena musicale (all’epoca si parlava di AOR o Adult Oriented Rock) che ha venduto milioni di copie e che ha rappresentato una punta di diamante dell’industria discografica americana che viene definita da una parodia. Non male, eh? 

Un classico caso di riscoperta e glorificazione post modern e post mortem come se ne contano a dozzine? O un’occasione per vedere alcune cose sotto un’altro aspetto? Tranquilli: se siete tra coloro le e i quali sono ancora in coda dal secondo paragrafo di questo articolo per ricordarci che quando sentivano Christopher Cross chiamavano l’esorcista e ostendevano i propri vinili post-punk, non proveremo a farvi cambiare idea. 

Ma i temi che emergono in questi godibilissimi, divertenti e a tratti anche commoventi 95 minuti sono super interessanti, vediamone qualcuno.

L’intreccio black & white: sebbene in genere sia chiaramente un genere bianco e maschile, il rapporto con la musica nera è inestricabile: non solo per l’evidente influenza del jazz e del soul, ma anche per la presenza di molti artisti neri che possiamo senza troppi problemi inserire sotto la definizione (Al Jarreau, Chaka Khan, Commodores, George Benson…), per la presenza dei maggiori turnisti bianchi in capolavori del pop nero come Thriller di Michael Jackson e per l’influenza che lo stesso Yacht Rock ha avuto sulla scena black, come fonte di campionamenti per l’hip-hop o di ispirazione per artisti come Questlove o Thundercat, ampiamente presenti con le loro testimonianze nel film. 

Certo, rimangono alcuni nodi piuttosto scomodi per un mondo sensibile come quello di oggi, come ci ricorda lo studioso canadese (nero) Jason King che non perdona ai Toto un testo colonialista e irrispettoso come quello di “Africa”.

Il passaggio epocale al video: il film sottolinea con molta enfasi - sulle note di “Video Killed the Radio Star” - come la “morte” del genere coincida e sia dipesa dalla rivoluzione MTV, che lancia artiste e artisti dal forte impatto visivo (oggi sembra quasi un’ovvietà), seppellendo i tanti che fino al giorno prima avevano confidato solo nella propria maestria musicale, senza curarsi troppo dell’aspetto o della performatività che non fosse funzionale al suonare.

 

Il disimpegno e la disconnessione con il mondo reale: si è molto parlato del soft-rock americano come di una sorta di analgesico per dimenticare gli orrori degli anni del Vietnam e non c’è dubbio che l’introspezione individuale di gran parte dei testi dello Yacht Rock (privi di agganci evidenti con la contemporaneità) pongano molte canzoni nell’ambivalenza tra classico senza tempo e disvalore della superficialità. 

Uno sguardo alle condizioni produttive aiuta a mettere le cose a fuoco: qui ci sono i migliori artigiani musicali del periodo, gente che - lo ricorda anche il film - poteva entrare in studio senza nemmeno sapere cosa avrebbe dovuto suonare e nel giro di una seduta di registrazione non solo avere letto a prima vista qualsiasi spartito, ma anche avere infuso a quella musica forza e personalità. Siamo a Los Angeles non a caso (e gran parte degli “Dèi” caduti dall’èra dello Yacht Rock nell’oblio a sandwich tra “autenticità” e “spettacolo” degli anni di MTV si ricicleranno anche come autori per il cinema) e quando con il tuo mestiere ci paghi le bollette, ti diverti e scrivi delle canzoni che vendono milioni di copie, alcune urgenze passano inevitabilmente in secondo piano.

Le vicende umane: vedere Micheal McDonald intervistato con uno sguardo da orsacchiottone mentre racconta quanto il figlio preferisse “Regulate” di Warren G all’originale paterno da cui era tratta la base, così come ripercorrere con Christopher Cross la genesi di canzoni nate sotto l’effetto di un acido e finite a provare gli impianti hi-fi per lo zio nerd… così come l’impagabile risposta di Donald Fagen al regista che tenta di intervistarlo fanno di questo documentario un piccolo gioiello che riesce nell’intento di celebrare un’epoca senza toglierla dalla lente dell’obiettività.  

E se penso che tra i tre, quattro documentari più belli di questi ultimi anni ce n’è uno sullo Yacht Rock e uno su Kenny G (il capolavoro Listening To Kenny G della regista Penny Lane), mi sembra che la lezione del libro di Carl Wilson Musica di merda  - e il suo ricordarci quanto le musiche che molti odiano siano tra le più interessanti per leggere anche quello che ci piace - sia ancora una volta attualissima. 

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