I canti di nessuno

Il libro Cosa Nostra Social Club di Goffredo Plastino affronta il tema dei rapporti fra musica e mafia in Italia, dal repertorio "di 'ndrangheta" consacrato sul mercato della world music internazionale fino ai neomelodici napoletani, e a Saviano...

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«Perché la gente scrive grandi canzoni sui fuorilegge, e mai su governanti, sindaci o capi della polizia?» si chiedeva Woody Guthrie. La domanda è lecita, e in Italia ci sono molti modi di rispondere - e, soprattutto, di non rispondere. Il tema è stato sollevato, nell'ultimo decennio, dall'emergere nel dibattito politico e sui media di repertori musicali bollati come "pericolosi" perché collegati a qualche titolo con la violenza e la criminalità organizzata: in particolare, i "canti della 'ndrangheta calabrese" - arrivati al successo mondiale nel 2000, grazie ad un disco prodotto in Germania - e, in tempi recenti, anche sulla scia di Gomorra, le canzoni dei neomelodici napoletani. Apologia di reato? Istigazione a delinquere? Medium di trasmissione di culture criminali? Semplici prodotti di cattivo gusto? Secondo un'interpretazione piuttosto comune - rilanciata da politici e commentatori - queste canzoni sono in grado di influenzare negativamente chi le ascolta. In alcuni casi, servirebbero addirittura da «educazione musicale alla mafia», e sarebbero quindi da emarginare e proibire. Cosa Nostra Social Club di Goffredo Plastino, etnomusicologo e docente della Newcastle University, cerca di mettere ordine nella materia, e non rinuncia a scegliersi una posizione non accondiscendente, per analizzare come si sia parlato di musica e mafia in Italia negli ultimi anni, e per suggerire come il punto del discorso fosse, in realtà, un altro. Come diceva Frank Zappa - e la frase sigilla il libro sulla quarta di copertina: «Ci sono più canzoni d'amore che su qualsiasi altro argomento: se le canzoni potessero farti fare qualcosa, allora ci ameremmo tutti». Abbiamo parlato dell'argomento con Goffredo Plastino.

Intanto, da dove nasce l'idea del libro?
«Avevo cominciato a comprare le cassette dei "canti di 'ndrangheta" negli anni Novanta, più per desiderio di collezionismo che altro. Le prime discussioni e le conseguenti demonizzazioni di questo repertorio non mi convincevano. Ho poi capito che si trattava della costruzione a tavolino di una totale alterità musicale: non ci sono in effetti tanti repertori italiani sui quali giornalisti, antropologi, studiosi hanno scritto in maniera così concorde, e negativa. Per cui, al di là del valore musicale di queste canzoni - che in questa conversazione metto tra parentesi - il discorso era interessante da considerare. All'epoca, in Calabria, sono stato quasi sommerso da un'ondata di panico morale: le posizioni erano già polarizzate in maniera tale che non si poteva più fare niente. L'idea del libro è venuta piano piano, e la consegna è stata rimandata perché volevo accertarmi di aver seguito il fenomeno nei dettagli. Bisognava parlare anche dei neomeolodici, a quel punto...».

Che tipo di importanza, anche quantitativa, hanno questi repertori oggi in Italia?
«Parliamo di una fetta di mercato che è senz'altro maggiore di quella di molte operazioni della popular music italiana. Quelli che facevano le cassette in Calabria, di malavita o meno, non andavano sotto le ventimila copie: è la cifra minima per acquisire una certa visibilità. Restando più bassi, ogni cassetta o cd potrebbe aver venduto sulle diecimila, dodicimila unità: io ho almeno 120 o 130 cassette nella mia collezione... E se le cassette calabresi hanno avuto un circuito locale, e fra gli emigrati all'estero, quelle napoletane e adesso i cd si vendono in tutto il sud, e in realtà anche al nord. Sono numeri importanti, che forse non generano lo stesso tipo di economia di altre produzioni, ma non si deve fare l'errore di pensare che siano operazioni di nicchia: parliamo di milioni di copie in totale, ancora oggi. E sul reale mercato di questi repertori non ci sono ancora analisi accurate».

Nel libro descrivi le canzoni di malavita calabresi come «appartenenti a nessuno». Dove si collocano, oggi, nella società calabrese?
«Non esistono, o se esistono appartengono ad una alterità - sociale, politica, culturale, eccetera. Appartengono cioè sempre "a qualcun altro". Questa costruzione è così radicale che mi capita spesso di parlare di queste canzoni con persone che non ne hanno mai ascoltata una, né saprebbero nominare un cantante, ma per le quali sono inaccettabili, volgarissime, malvagie. Questo è dovuto anche alla volgarizzazione di quella teoria antropologica degli anni Settanta per cui la mafia non era cultura popolare, e per cui la "vera cultura popolare" non poteva essere mafiosa. Il fatto stesso che esistano queste canzoni però ha messo in questione il concetto di "popolare": l'unico modo per ragionare su di esse è stato quindi farle diventare altro, popolaresche e "commerciali", magari. All'opposto, ci sono ancora quelli che dicono che la mafia non è nemmeno espressione delle "élite" calabresi... e così la mafia diventa incollocabile, una cosa che c'è ma non si sa a chi possa essere riferita esattamente. Così come queste canzoni: ci sono, c'è qualcuno che le ascolta, ma chi le ascolta non fa mai parte del nostro milieu... Io non azzardo generalizzazioni, ma può darsi che raggiungano diverse classi sociali, trasversalmente. Quello della Calabria è in definitiva un trauma: non riuscire a guardarsi e capire alcuni elementi della propria realtà».

Questa "non appartenenza" tuttavia cozza con il successo che queste canzoni hanno avuto sul mercato della world music, da cui erano percepite e vendute come "autenticamente calabresi".
«È un caso esemplare, ha a che fare con il modo in cui le musiche locali vengono buttate nel calderone della world music e promosse. Quando mi chiesero di fare l'introduzione al primo disco PIAS, La musica della mafia, non avevo idea del tipo di taglio che avrebbero dato all'operazione. Hanno poi utilizzato la chiave dell'autenticità e della rarità: "li abbiamo scoperti noi", come se la Calabria fosse l'ultima enclave desolata in Europa. "Autentiche" significava, in questo caso, "autenticamente mafiose", della mafia e non sulla mafia. E il paradosso è che sono riusciti a sostenere così bene questa idiozia che anche coloro che criticano queste canzoni hanno ripetuto e ripetono la stessa cosa, senza rendersi conto che stanno obbedendo ad una strategia di promozione discografica».

Non è una dinamica tanto diversa da quella di molte produzioni della world music, che puntano sull'"autenticità" delle musiche e dei musicisti. L'anomalia è che questa volta si parla di casa nostra?
«Esatto. Comunque, io non conosco nessun altro repertorio italiano folk o di folk revival che sia riuscito a vendere 150 mila copie nel mondo. La strategia di marketing, il packaging, la copertina, l'insistenza sull'aspetto delinquenziale, hanno funzionato alla perfezione: in Italia e all'estero ci sono cascati quasi tutti, sostenitori e detrattori. Per le riviste di world music è stato un fenomeno da mettere insieme agli altri, "pericolosamente" autentico. Con il vantaggio per la casa discografica di intercettare tanto il pubblico interessato a repertori con un qualche contenuto violento, e quello che ascolta le musiche del mondo».



Tante musiche hanno una componente criminale. Spostandoci sui neomelodici: perché - per dire - il rebetiko è oggi accettato, e i neomelodici no?
«Per Napoli, si tratta sicuramente di un meccanismo di classe, ideologico. Tanti napoletani, anche per mia esperienza, percepiscono la canzone napoletana attraverso il filtro di una costruzione in epoche storiche che hanno loro stessi elaborato. È una specie di sapere diffuso, non solo intellettuale. Questa "canonizzazione" del repertorio è molto discussa in città, con maggiore o minore competenza. Quello che avviene al di fuori delle "colonne d'Ercole" che rappresentano la "fine" della canzone napoletana, e che si spostano a seconda dei decenni, è sempre criminalizzato o rifiutato come irrilevante. Lo è stato Mario Merola, perché la canzone napoletana era "morta" negli anni Cinquanta o Sessanta. Lo è stato Pino Daniele: ci sono libri che finiscono con la spiegazione di come Pino Daniele sia l'apocalisse della canzone napoletana. Ed è successo con i neomelodici quando sono arrivati. C'è bisogno di un quindicennio, un ventennio, perché le esperienze nuove vengano almeno in parte assorbite nel canone. Non è una questione che ha a che fare solo con elementi stilistici: i neomelodici cantano normalmente come molti altri cantanti a Napoli. I loro testi a volte sono descritti come banali, ma è anche vero che noi ricordiamo per lo più solo i classici della canzone napoletana, mentre c'erano in passato canzoni altrettanto banali che non vengono più eseguite e abbiamo dimenticato, o mai conosciuto. Il problema è solo e semplicemente l'impossibilità di accettare che i neomelodici sono arrivati e hanno cambiato le regole del gioco: la direzione in cui queste canzoni sono prodotte si è invertita di senso. Il "popolo" è passato da oggetto a soggetto della rappresentazione musicale elaborata all'interno della canzone napoletana. E ho riscontrato come, tanto all'inizio del secolo scorso quanto oggi, ogni volta che un repertorio marginale emerge, in città si ripeta la stessa opposizione e con gli stessi termini: "è musica plebea"».

E dove si inserisce il collegamento con la camorra? I neomelodici non cantano solo di latitanti...
«I neomelodici cantano di quasi tutto: sesso, droga, amore, automobili... così come le vecchie canzoni cantavano di scalinate, funicolari, amore, spingule francese... e quindi cantano anche di personaggi delinquenziali. Se tu vuoi criminalizzare una scena, comunque, ne selezioni un solo aspetto e lasci stare il resto. Una volta criminalizzata, la parte vale per il tutto e il panico morale si suscita immediatamente: "O mio Dio, le canzoni neomelodiche parlano dei camorristi!". Il cerchio si chiude, e l'interpretazione corrente è stabilita. Dal punto di vista economico, non c'è da stupirsi che la camorra sia attiva nel mercato neomelodico. Ci hanno detto e ripetuto che la camorra può essere presente in qualsiasi mercato: perché non dovrebbe esserlo anche in quello musicale, se non per il nostro pregiudizio romantico per cui la musica sta al di sopra delle volgarità economiche? Se c'è un mercato, ci può essere la camorra».

Quanto ha giocato il successo di Saviano per questi temi? Ad esempio, il fatto che in Gomorra abbia raccontato come i killer della camorra andassero ad uccidere ascoltando i neomelodici?
«Ha influito moltissimo. Quando ha scritto Gomorra, Saviano ha anche amplificato una serie di interpretazioni che preesistevano. I killer ascoltano musica neomelodica... l'equazione è abbastanza ovvia. Ma poi ha insistito attraverso articoli, incontri pubblici, ripetendo queste cose più volte. Ha stabilito - essendo considerato un'autorità sull'argomento, non contestabile, e comunque mai contestato in questo caso - una modalità di interpretazione standard, che ormai è quella "corretta". Il fraintendimento maggiore di Saviano è non aver capito che i cantanti mettono in scena qualcosa, non sono quello che cantano».

Il tema è dunque la "rappresentazione" della violenza. Nel libro scrivi che «è stata elaborata socialmente e culturalmente in Italia la legittimazione a scrivere della violenza e a visualizzarla, ma non a cantarla». Perché?
«Perché fondamentalmente siamo ancora felicemente fedeli alla convenzione pseudoromantica per cui la musica è lì per elevare il nostro spirito, e che quindi è lontana dalla banalità o dalla negatività della vita. Se c'è, serve a farci stare bene. Queste canzoni non ci fanno stare bene e quindi non ci sono, o sono marginali e criminali. Poi, come scrivo, rispetto alla rappresentazione della violenza ci sono delle relazioni di egemonia, ma queste sono stabilite da decenni. La violenza si può fotografare, scrivere e filmare: e nessuno si sognerebbe, in questi casi, di elaborare un legame tra l'autore della rappresentazione e la cosa rappresentata. Nessuno direbbe mai che Martin Scorsese è un delinquente perché ha diretto Quei bravi ragazzi. Anche se qualcuno ci ha provato... Nessuno ha criticato Matteo Garrone per aver diretto Gomorra, come nessuno ha criticato Saviano per aver pubblicato un testo - di cui parlo nel libro - accompagnato da quaranta fotogrammi che ritraggono l'uccisione di un boss camorrista. Sono immagini che fanno inorridire, però nessuno si è sdegnato. Il cantante in Italia non ha l'autorità morale per fare prodotti culturali del genere: non si può fare una rappresentazione della mafia in musica. La mafia si può cantare, ma soltanto contro. È una sorta di rimozione, un modo per crearsi una distanza critica e sentimentale. La cosa interessante è che questo processo, in Italia, è ciclico: qualsiasi repertorio venga storicamente usato per rappresentare la mafia - l'opera, il progressive rock come nel caso dei Giganti con Terra in bocca, i canti calabresi - è immediatamente rifiutato, poi accantonato, infine alla lunga accettato, almeno marginalmente. Nel libro ricordo un caso emblematico di inizio Novecento, quello di Giuseppe Musolino, un delinquente pluriomicida calabrese quasi certamente mafioso: all'epoca era proibito cantare le ballate su di lui, perché si finiva in galera. Oggi si possono ascoltare e cantare senza timore, e Musolino è anche descritto come un "brigante buono"...».

In conclusione, che dobbiamo fare di questi repertori? Come dobbiamo trattarli?
«Dal punto di vista musicale, come trasformazioni recenti di repertori più consolidati. Dal punto di vista della narrazione, come rappresentazione e trasfigurazione dell'esistente - queste cose esistono intorno a noi, te le racconto attraverso la musica. Anche come tentativo di dare un senso ad una violenza insopportabile. O, come diceva Sciascia negli anni Sessanta: si canta il modo in cui queste persone sono, senza condividere necessariamente quello che fanno. Il fatto stesso che queste cose vengano trasposte in musica le pone sul piano della rappresentazione. Non sono né apologia né testimonianza di complicità, perlomeno nella maggior parte dei casi».

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