I 10 migliori album del 2024 di Bizarre

Pop trasversale, da Jlin a Charlie XCX: il best of del 2024

Jlin
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Dopo 3.500 (ri)ascolti di altrettanti dischi (e naturalmente tra una settimana scoprirò cose meravigliose che mi sono perso), la mia selezione di dieci titoli non offre grandi spunti. Alla fine, sono i nomi che sono comparsi un po’ ovunque, pochissime eccezioni, ma tant’è. È fondamentalmente una lista eclettica di dischi eclettici, e questo la dice lunga su come non esistano più compartimenti stagni dei vari generi. 

– Leggi anche: Il meglio del 2024

Si sa che comunque l’insieme di dischi di valore di un’annata è ben oltre la decina: basta fare l’unione delle liste di 3 o 4 diverse testate specializzate e superiamo agevolmente il centinaio…

Per scelta, nessun disco italiano: ne parlo fin troppo durante l’anno nella rubrica Italodischi. E neanche nessun ranking tra i nomi selezionati, che presento in ordine alfabetico. Anche se, dovessi dire chi vince tra tutti, sarebbe sicuramente Jlin.

1. Charli XCX, brat, Atlantic

Il pop mainstream fatto bene, bilanciato alla perfezione tra ganci melodici e ballabilità; e sicuramente anche molte ovvietà, alle quali tuttavia è difficile resistere… È sicuramente un disco più nel target di mia figlia adolescente che del mio, ma sarei disonesto se non ammettessi che è seducente e addictive come pochi.

 2. Cindy Lee, Diamond Jubilee, autoproduzione

Sicuramente uno dei casi dell’anno, il disco di Pat Flegel: che non solo non è uscito in formato fisico (è però in arrivo con l'anno nuovo) ma non è disponibile su nessuna piattaforma se non YouTube, rifugge da ogni forma di promozione ufficiale e suona artigianale e provvisorio come i tempi in cui viviamo. Due ore di musica che sono un riassunto dello stato dell’arte dell’indie, lo-fi intenzionale tra Daniel Johnston e Guided By Voices, una panoplia di stili che vanno dalla canzonetta rock’n’roll al croonerismo alla funky disco alla filastrocca per bambini a chissà che altro: insomma il fascino dell’imperfezione al massimo livello.

 3. Kim Gordon, The Collective, Matador

Sarebbe molto facile, per un’icona come Kim Gordon, vivere di rendita e continuare a frequentare la comfort zone del noise rock che le ha dato gloria con i Sonic Youth. Invece, conferma la collaborazione già avviata nell’album d’esordio col produttore elettronico Justin Raisen, e pubblica un disco che, se da una parte è in continuità col passato (nel rumore e nella dissonanza), dall’altra si spinge in territori inediti di sperimentalismo dub, ritmiche trap e hip hop, suoni digitali scuri e disturbanti. Il classico disco che si ama o si odia.

 4. Julia Holter, Something In The Room She Moves, Domino

È ormai in giro da un bel po’, Julia Holter, ma raramente ha sbagliato un disco. È un’artista che ha la capacità di mantenersi in equilibrio tra istanze avanguardistiche e canzone pop, un po’ come una Kate Bush meno orecchiabile e più predisposta alla sperimentazione. Come tutti i suoi album, Something In The Room She Moves non passa al primo ascolto, le sue melodie intricate, senza ammiccamenti né facili scorciatoie richiedono all’ascoltatore un po’ di attenzione; ma alla fine risulta uno dei suoi dischi più completi e convincenti.

 5. Jamie xx, In Waves, Young

Il bignami perfetto per la club music degli ultimi quarant’anni. Dagli eco di disco music preistorica al beat di ultima generazione, con sprazzi di techno pop, big beat, tech house, novelty anni zero e mille altre cose, In Waves è puro godimento danzereccio dall’inizio alla fine.

 6. Jlin, Akoma, Planet Mu

Jerrilynn Patton, producer americana che nasce come esponente di footwork, mostra al terzo album una versatilità stilistica senza pari, abbinata a una creatività irrefrenabile. Dominato dal beat, Akoma esibisce la capacità di spingersi in territori tanto diversificati quanto egualmente affascinanti: c’è lo sperimentalismo destrutturato già portato avanti da Björk (peraltro presente in un brano), ci sono citazioni di techno aphexiana, di rumorismi e di vocalizzi etnici, e poi ancora deviazioni verso la neo classica (con il Kronos Quartet a illuminare un brano), episodi di minimalismo alla Philip Glass (anche lui tra i vari featuring), a sprazzi addirittura frammenti che rimandano alle prove di Zappa sul synclavier. Soprattutto questo disco ha la capacità di dare un’idea di futuro nella musica come non capita quasi mai – l’ultima per me era stata parecchi anni fa con l’esordio di SOPHIE (che pubblica anche lei un disco postumo quest’anno, che però è troppo disunito e normalizzato per entrare in playlist). Al momento Jlin è la punta di diamante dell’elettronica odierna.

 7. Kendrick Lamar, GNX, pgLang/Interscope

Non c’è niente da fare, per quel che attiene all’hip hop la mia predilezione per Kendrick Lamar è inattaccabile. Il flow, la scelta dei suoni, l’attitudine, l’energia, lo decretano ancora una volta come il miglior rapper del pianeta. GNX è sicuramente meno ambizioso del suo predecessore Mr. Morale…, e anche il sound è meno avveniristico (anzi a tratti pare di sentire la old skool della West Coast); ancor meno mi importa dei suoi dissing con Drake… mi importa che un disco con un groove e un tiro del genere quest’anno non l’ha fatto nessun altro.

 8. The Lemon Twigs, A Dream Is All We Know, Captured Tracks

I due fratellini D’Addario, precoci e prolifici come pochi, sono una delle più deliziose anomalie del pop odierno. Fanno canzoni totalmente immerse nel mood degli anni Sessanta, tra Beatles, Beach Boys e Byrds, con armonie intricate, melodie cristalline ed esuberanti impasti vocali. Avrebbero tutto per essere liquidati come un fenomeno di puro revival (e per molti è così), ma trovo in questi ragazzi un entusiasmo così sincero, e un talento così puro nel saper scrivere canzoni, che il loro passatismo è ampiamente scusabile di fronte a pezzi così perfetti e godibili. Certo, potrebbero essere stati scritti nel 1966; ma per una volta, chi se ne frega.

 9. The Smile, Wall of Eyes, XL

Quanti avrebbero dato credito alla premiata ditta Yorke/Greenwood per quello che sembrava un progetto di ripiego rispetto ai Radiohead, i quali parevano ormai aver finito la benzina? La realtà ci dice invece di una band, The Smile, che con una ripulita al suono e rinnovata energia confeziona musica di qualità e non fa affatto rimpiangere il gruppo d’origine. Gruppo col quale c’è ovviamente una parentela stretta, ma che sembra comunque distante anni luce da questa ritrovata freschezza, dall’indiscutibile dinamismo che traspare da Wall of Eyes (e in misura minore anche dal suo seguito, Cutouts).

 10. Yard Act, Where’s My Utopia?, Island

L’ondata del post punk, che un paio d’anni fa sembrava la cosa più hype che ci potessimo immaginare, è ormai un lontano ricordo. Gli Yard Act, che di quel movimento fecero parte a tutti gli effetti, hanno capito che dovevano cambiare qualcosa per non scomparire. Detto fatto: è bastato aumentare il volume di funk e puntare sul groove per ottenere un sound che potrebbe stare a metà tra i De La Soul (il cantato non è rap, ma piuttosto uniforme, e con parecchie sezioni di spoken) e gli Happy Mondays. Sempre molto inglese, ma inusualmente eccitante, ballabile e divertente.

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