Sono passate le 23 e ad Addis Abeba è un’ora tarda, sul palco del Fendika si avvicendano cantanti occasionali e pop etiope. Il pubblico segue e partecipa appassionato, di volta in volta qualcuno sale e allunga una banconota, come da tradizione: sono accompagnati dalla stessa band del locale che aveva aperto la serata con un concerto emozionante.
Si erano potuti sentire strumenti tradizionali, come il kirar (un’arpa), il basso kirar, il washint (il flauto etiope), il masenko (strumento ad arco con una sola corda), fusi con strumenti elettronici, tastiere, varie percussioni, una tromba, un sax.
Gli echi di sonorità tradizionali, con scale pentatoniche e ritmi irregolari, si mescolano con guizzi jazzistici ed echi di blues, senza che si percepisca la sensazione di trovarsi di fronte a un’operazione artificiosa, mentre il gruppo di danza con il suo leader Melaku Belay si avvicenda sulla scena con gli sfrenati movimenti di spalle propri delle danze degli altipiani etiopi, delle regioni del Gojjam, del Wollo, del Tigrai o dell’Amhara.
Da più di un decennio il Fendika è diventato un punto di riferimento e di incontro di culture. Il suo fondatore, lo stesso Melaku Belay, è riuscito a creare un ambiente "misto", un melting pot di pubblico: giovani di vari quartieri e estrazione, qualche turista, funzionari e dipendenti delle numerose ambasciate della capitale.
All’interno il clima è animato e vivace, ma durante le esecuzioni l’ascolto è rispettoso e silenzioso. Non c’è il chiacchiericcio frequente in certi nostri jazz club, le pareti e il soffitto sono piene di decorazioni fra il concettuale e l’ispirazione tribale, le stanze posteriori ospitano esposizioni d’arte; in un settore all’aperto c’è un falò acceso in un bidone.
Il locale spunta quasi nascosto, tra gruppi di casette con il tetto in lamiera e baracche davanti a palazzi residenziali e alberghi a cinque stelle, tra grandi viali e strade sterrate con i marciapiedi sconnessi. Di giorno, caos, rumore di traffico, clacson ossessivi e ripetuti, i mercati, le bancarelle; di notte, un ambiente silenzioso e semibuio, con il solo passaggio di qualche vecchio taxi scalcagnato ad aspettare l’uscita del pubblico. Ci troviamo nel quartiere Kazanchis di Addis Abeba, uno dei tanti del disordinato sviluppo urbanistico della capitale.
Per il Fendika sono passati, tra gli altri, musicisti come Mulatu Astatke, il gruppo punk olandese degli Ex, alcuni membri dei Red Hot Chili Peppers che, dopo aver partecipato a un’animata jam nel 2011, gli hanno dedicato un pezzo, nell’album I’m With You, intitolato "Ethiopia".
Contrariamente alle consuetudini del paese, nel quale i musicisti per la maggior parte fanno ricorso a mance, qui vengono pagati regolarmente.
In un’Etiopia che vive come sul bordo di un perenne bivio, tra le promesse di sviluppo di una comunità internazionale onnipresente nella capitale, e una miriade di minacce interne di conflitti etnici (al momento la regione dell’Amhara è inaccessibile per una guerra civile, iniziata nell’aprile dello scorso anno, di cui non c’è parola nella stampa internazionale), vediamo sopravvivere questa piccola realtà che promuove una sorta di sincretismo dei linguaggi artistici delle diverse popolazioni di questo paese.
Il giorno seguente incontriamo Melaku Belay, di ritorno da una recente tournée in Europa, per ripercorrere con lui la sua storia artistica e di promotore autonomo di danza, musica e arte.
«Ho 47 anni, sono nato ad Addis Abeba, sono nato con la danza, con la musica, posso dire fin dal ventre di mia madre: sono cresciuto in un mondo nel quale danza e musica sono uno stile di vita».
«Questo mi ha aiutato molto, sì, perché quando hai talento, anche nel mio paese, ci sono varie opportunità di crescere e sviluppare le tue possibilità: esibizioni tra la gente, festival religiosi, feste. Per me il mio modello è la mia gente. Così all’inizio frequentai la scuola, una scuola normale, di musica e di danza».
Con che tipo di danza in particolare sei cresciuto? Qui in Etiopia ci sono forme e stili differenti a seconda delle regioni.
«Non potrei dire uno stile specifico: io amo la danza in generale. Ad Addis Abeba c’è una tradizione multiculturale delle varie etnie che fanno parte di questa realtà, un mix. In pratica riesci a fare una sintesi delle diverse tradizioni dell'Etiopia».
Ci puoi raccontare come hai maturato questa consapevolezza, come qualcosa che era nell’aria o come una tua esigenza espressiva personale?
«Per tutta la mia vita sono cresciuto e ho vissuto ad Addis Abeba, e ho partecipato alle molte feste religiose dove si fa musica e danza, secondo varie tradizioni – del Tigrai, dell’Amhara, dell’Oromo... con queste tradizioni ho avuto l'opportunità di interagire, maturando e crescendo musicalmente poco a poco, con i diversi gruppi con i quali sono venuto in contatto, specialmente quando ho iniziato a lavorare nell’ambito del Teatro nazionale. Qui sono entrato in un gruppo musicale tradizionale che però lavorava anche con il jazz, con strumenti moderni».
«Quando però ho iniziato a partecipare ai concorsi, lo spirito libero con il quale avevo iniziato a impostare un mio personale approccio alla danza non era accettato bene».
Non sarà certo stato facile, le innovazioni sono sempre difficili da far passare in un ambiente con tradizioni molto radicate... Raccontaci un po’ in che mondo sei cresciuto, come sei riuscito ad affermarti e ad avviare un locale come il Fendika.
«Quando ero ancora bambino a causa della rivoluzione del Derg (la dittatura militare che governò l’Etiopia del 1974 al 1987) mia madre scappò in Sudan e non la rividi per 16 anni, rimasi con mio cugino che era molto anziano. Quando morì avevo circa 17/18 anni, mi ritrovai senza nessuna risorsa e iniziai una vita da vagabondo, da senzatetto. Però ballavo da sempre: provai a chiedere di lavorare ai proprietari del Fendika, che era un locale Azmari (di danza tradizionale)».
«Più avanti mi diedero il permesso di dormire qui, sotto il bancone del bar, per quasi 12 anni».
«In qualche modo cominciai, riuscivo a racimolare delle mance, poi andavo fuori e dormivo con i ragazzi e i bambini di strada. Più avanti mi diedero il permesso di dormire qui, sotto il bancone del bar, per quasi 12 anni. È in queste condizioni che ho cominciato a maturare il sogno di comprare questo posto, di farlo mio».
Impresa non certo facile, visto il tuo punto di partenza.
«Certo, ma in ogni caso lo volevo fortemente! Ho iniziato a ottenere scritture di danza e a insegnare all’estero, lavorando con molta determinazione per ottenere risorse, risparmiando e attivando diversi crowfunding, con Indiegogo e con il sostegno di diversi gruppi di stranieri, specialmente italiani e tedeschi. Nel 2008 ho cominciato a prendere il locale in affitto, e nel 2012 sono riuscito a comprarlo. Così ho fondato il Fendika, un locale aperto gratuitamente per gli artisti, gli artisti visuali – sì, totalmente gratuito perché qui non ci sono gallerie disponibili, non c’è spazio... Volevo fondare uno spazio creativo per l’arte!».
«Già nel 2009 ho iniziato con la mia band, che si chiamava Ethiocolor. Dopodiché ho ricevuto parecchi inviti, e cominciato a sperimentare diversi tipi di fusioni musicali, con il jazz, il rock, il flamenco...
Sia dal punto di vista della danza che dei progetti musicali c’è quindi da parte tua un approccio che procede verso particolari sintesi stilistiche e di linguaggi?
«Crescendo ho ascoltato e sono venuto a contatto con tutta una serie di esperienze estremamente composite. Qui la gente canta e fa musica ovunque e sempre, per cui è naturale per un musicista ascoltare e cogliere un mondo di opportunità: io ho imparato a improvvisare vivendo tra la gente, per cui quando ho cominciato a danzare con un gruppo per me era normale improvvisare: io sono cresciuto in questo modo».
Si può dire che il tuo esperimento di performance, registrato nel grande e caotico mercato di Addis Abeba – conosciuto come “Merkato” – e diffuso su YouTube, segni un punto di evoluzione importante per lo sguardo di un’arte veramente "di strada" e che si fondi su una nuova ricerca di sonorità e ritmi ‘concreti’?
«Merkato è uno dei più grandi mercati dell’Africa: lì ho scoperto una possibilità estremamente creativa. C’è una zona, una strada di piccole botteghe, dove si lavorano grandi bidoni di metallo che vengono battuti per essere modellati, un frastuono incredibile di martelli, nel quale però ci sono un’infinità di ritmi: ho iniziato a ballare e la gente mi guardava come un pazzo!».
«Normalmente la gente passa di lì scappando. Quando ho cominciato a interagire con quella realtà l'ho fatto perché ne percepivo l’energia, la sua forza attrattiva».
«È anche difficile ottenere il permesso, così l'ho chiesto ai lavoratori: posso danzare qui? Pensavano fosse uno scherzo. In ogni caso prima di tutto l'ho chiesto a loro: posso avere il vostro permesso? E poi vi farò vedere! Poi ho danzato, e abbiamo registrato diversi video. Quando si sono resi conto di quello che facevo e cominciavano ad applaudire la musica si fermava... e allora gli ho detto "continuate a lavorare per favore, altrimenti la musica si ferma!"».
«Quando poi li ho invitati per una performance all’art school dell’Università di Addis Abeba ne erano molto orgogliosi, e quando siamo andati alla televisione nazionale sono impazziti! Così molti hanno cominciato ad apprezzare quest'idea, e ho danzato sugli autobus, in strada... street sound!».
Quindi questo è stato un importante momento di svolta, in che direzione?
«Ho sviluppato nuove idee coreografiche, aprendomi a diverse possibilità. Nuove idee per la mia gente: molte danze derivano da varie tradizioni – Oromo, Tigrai, Amhara. Io però volevo dare un taglio mio personale, da un punto di vista coreografico, per aprire nuove prospettive per il futuro, per aprire gli occhi, le orecchie: questo è stato il momento in cui ho fatto click».
Parliamo di musica: tu parti dalle musiche tradizionali e hai un gruppo con il quale ti approcci a vari generi a vari mondi musicali.
«Io amo l’energia, con l’energia controllo me stesso, l’energia mi prende: il jazz mi dà conforto, ma posso danzare anche con il rock. Per lungo tempo ho ballato con gruppi di punk rock come The Ex. Poi con molti gruppi di jazz, o di flamenco dalla Spagna. Qui in Etiopia si faceva solo danza Azmari, ma non mescolanze, fusioni, così dopo aver fondato la mia band ho invitato musicisti jazz».
In che modo?
«Con il mio corpo, creando una connessione, un ponte, nello stesso modo in cui ho iniziato a sperimentare il movimento sui rumori del mercato».
Veniamo quindi al mood del Fendika, all’ambiente che hai costruito e ai diversi tipi di fusioni musicali che si sono create.
«Il Fendika è diventato il luogo in cui si può catalizzare questa energia, questa nuova sintesi. E dopo aver introdotto il jazz anche la mia band ha iniziato a suonare diversamente, con un’energia diversa, direi più "bianca". Il locale è diventato un punto di riferimento per tutta la città, anche per le arti visuali e la poesia. Sono venuti musicisti dalla Norvegia, dall’Italia, dagli Stati Uniti, dal Canada... sono venuti anche i Red Hot Chili Pepper: una notte folle, una jam memorabile con una ventina di persone!»
«Ho poi iniziato a collaborare a vari dischi con la mia band. Tra l’altro sono anche DJ e colleziono dischi rari. Aspiro a creare un ponte tra le persone, a creare connessioni attraverso l’energia dell’arte, della musica, traendo beneficio da noi stessi».
Qual è il tuo rapporto con gli altri musicisti della scena etiope e internazionale?
«Ho lavorato con Mulatu Astatke, parecchio tempo fa; è anche venuto al Fendika e ci siamo incontrati diverse volte all’estero. Anche con Girma Bèyènè, che è un ottimo compositore della generazione di Mulatu, che purtroppo dovette emigrare a causa della dittatura del Derg. Ho anche collaborato con musicisti italiani come Enzo Favata e Francesco Cusa».
«Sono fortunato ad aver lavorato con così tanti artisti e musicisti della scena jazz e della danza, di aver fatto da ponte. Credo nella libertà dell’arte e di aver fatto del Fendika un punto di riferimento aperto».
Che cosa ne pensa il pubblico etiope riguardo alle operazioni che stai compiendo?
«Sono orgogliosi di me perché hanno bisogno di questo, di una nuova creatività. Sono orgogliosi perché in questo modo trovano una connessione con il mondo esterno. Porto il mondo da fuori e porto all’estero l’Etiopia, il mondo non sa nulla dell’Etiopia e noi abbiamo infinite cosa da condividere: tantissima cultura, cinema, musica, bellezza».
«Porto il mondo da fuori e porto all’estero l’Etiopia, il mondo non sa nulla dell’Etiopia e noi abbiamo infinite cosa da condividere: tantissima cultura, cinema, musica, bellezza».
Prospettive per il Fendika?
«La cosa buona è che è un posto privato e non dipende dal governo e quindi non ho molta burocrazia da assolvere, posso tranquillamente dire di avere una buona qualità di lavoro».
«La cosa brutta è che ci sono molti appetiti da parte degli immobiliaristi nei confronti di questo posto, mi vogliono forzare a vendere. Devo comunque ringraziare in tal senso l’appoggio che ho avuto da parte del mondo diplomatico internazionale qui ad Addis Abeba, di tutti quelli che hanno supportato e amato il Fendika, un supporto di cui abbiamo tuttora ancora molto bisogno».