Damir Imamović è nato a Sarajevo nel 1978 ed è cresciuto in una famiglia di musicisti, e oggi è una delle figure e delle voci più interessanti della sevdalinka, la canzone urbana bosniaca fortemente legata a Sarajevo e chiamata anche semplicemente sevdah.
Il 6 settembre Imamović ha festeggiato i suoi quarant’anni con un concerto nella sua città («la sala era piena e il pubblico molto caloroso», ci ha raccontato), concerto al quale hanno partecipato Greg Cohen, Derya Türkan e Ivana Đurić. Il 16 settembre canterà a Perugia nella Chiesa di San Bevignate per la Sagra Musicale Umbra, che in occasione del Centenario della fine della Prima Guerra Mondiale e del cinquantenario della morte di Aldo Capitini, ha intitolato questa sua edizione “Guerra e Pace” (l'abbiamo raccontata QUI).
Quando hai iniziato a fare musica?
«In un certo senso ho iniziato da bambino, negli anni Ottanta, passando le estati nel sud dell’Herzegovina, che è simile alla Toscana, con mio nonno. Ho imparato molto da lui, anche se non è stato lui a insegnarmi la musica, ma da lui ho appreso molte cose, compresa la carpenteria. Era un uomo molto riservato e credo che il suo modo di essere mi abbia influenzato molto. La gente lo fermava per strada per parlargli e per fotografarlo, e così per andare da un posto all’altro ci volevano due ore perché tutti volevano chiedergli qualcosa…».
«Credo che il suo esempio mi abbia aiutato a gestire meglio la mia carriera, e a capire che la musica è molto più importante della fama e della persona. Più specificatamente, ho iniziato a suonare la chitarra verso i quattrodici anni durante la guerra, nel periodo dell’assedio di Sarajevo, e lo facevo sia nel mio appartamento che nel rifugio, suonando il pop e il rock’n’roll, i Deep Purple, i Cream, e la musica di altri gruppi».
«Da noi si usava organizzare delle feste nelle quali c’era sempre qualcuno che suonava uno strumento e qualcuno che cantava, a turno, intonando quello che conosceva, dalla musica tradizionale al pop, e naturalmente anche la sevdah. La parola che definisce questo tipo di incontri fatti per celebrare o festeggiare qualcosa, dernek, deriva dal turco, e la musica vi ha sempre avuto un posto importante. È così che ho cominciato e poi solo più tardi ho capito che avrei potuto fare il musicista».
Oltre a tuo nonno Zaim, che è stato uno dei più famosi interpreti della sevdah, anche tuo padre Nedžad si è dedicato alla musica.
«È stato un ottimo musicista, suonava diversi strumenti, musica pop, rock, e poi è entrato come bassista nell’orchestra di Radio Sarajevo, accompagnando i più importanti cantanti di sevdah, anche nelle registrazioni discografiche. Suonava il basso elettrico che era stato introdotto alla fine degli anni Cinquanta nella nostra scena musicale. Poi ha iniziato anche a curare gli arrangiamenti e la produzione, e cantava. Ma in realtà non voleva essere un cantante, soprattutto negli Ottanta, quando è apparso un nuovo folk modernizzato».
Anche tuo fratello è musicista?
«Mio fratello maggiore Nedim suona la chitarra, e prima della guerra degli anni Novanta suonava nei caffè. Ora fa anche il produttore e l’ingegnere del suono».
Chi altro nella tua famiglia si è dedicato alla musica?
«Ho scoperto tardi che la sorella di mio nonno, Djula, era stata importante negli anni Trenta.»
Che cosa distingue un cantante di sevdah?
«Il fatto di non cantare in senso personale e autoreferenziale, ma per così dire in nome di altri. Ci sono moltissime storie in questa tradizione e il suo ruolo è di raccontarle. Sono storie antiche e storie di donne, di uomini, di bambini, ed è come se il cantante assumesse identità diverse facendo proprie le storie della tradizione del passato o di quelle del presente».
Dopo la guerra e il lungo assedio di Sarajevo è cambiato qualcosa nel mondo della sevdah?
«La differenza maggiore è che si sono aperte le porte della musica tradizionale bosniaca, perché nella ex-Jugoslavia la musica tradizionale era ascoltata solo all’interno del mondo balcanico, e la sevdah doveva rispondere ai gusti del pubblico interno al paese, essere attraente, assecondare la voglia di ballare, avvicinandosi alla musica pop. Molti dei cantanti di sevdah, verso la fine degli anni Settanta, sono divenuti delle star».
«L’attenzione della comunità internazionale verso di noi ha reso possibile la diffusione della musica bosniaca, e così gli artisti hanno avuto la possibilità di registrare dischi in diversi paesi europei. Mi ricordo che tra il 2004 e il 2005, quando ho cominciato a cantare sevdah, era difficile riuscire a convincere i produttori a far seguire i concerti con il pubblico seduto, perché c’era l’abitudine di ascoltare musica per ballare. All’inizio non è stato facile, ed è per questo che ho cercato dei posti diversi dove cantare e suonare, per trovare la giusta attenzione dell’ascolto da parte del pubblico».
«Le esperienze fatte all’estero sono state molto positive, perché in Germania, Olanda e in altri contesti europei ho potuto esprimere quello che avevo da dire anche grazie alla qualità dell’ascolto».
il saz è il liuto a manico lungo storicamente legato alla sevdah, ma lo strumento che tu suoni ha qualcosa di diverso rispetto a quello tradizionale.
«Il saz è stato molto importante nella storia della sevdah, ma anche tutti gli altri strumenti della famiglia dei liuti a manico lungo lo sono stati. Quello che suono è un ibrido perché ha la cassa armonica del saz, ma con il manico della chitarra, e io utilizzo una accordatura differente, molto più adatta all’accompagnamento della sevdah, con la prima e la terza corda che sono Re diesis e Fa diesis. Mi piace molto il saz, ma mi piace anche la versatilità della chitarra che ti permette di suonare gli accordi. Lo strumento che utilizzo ora è già la seconda versione, ma ce ne sarà presto anche una terza».
Oltre ad utilizzare uno strumento ibrido, ti piace anche dialogare con altri generi musicali.
«Credo sia molto interessante ascoltare la combinazione di musiche differenti, e questo è il motivo per il quale ho cerco e invito musicisti di diverse estrazioni e stili, per poter dialogare con loro. Viviamo in un mondo aperto, ricco di stimoli ed è bello lavorare con musicisti differenti e confrontarsi, anche per evitare di pensare che la propria tradizione o il proprio mondo musicale sia migliore di altri, o il migliore in assoluto. Questa forma di chiusura e di provincialismo non mi appartiene, e tra le altre cose questo confronto mi aiuta anche a riflettere sulla mia cultura e sulla mia tradizione».
Come si potrebbe definire in poche parole la sevdah?
«Per poter rispondere a questa domanda ho sentito il bisogno di scrivere un libro! Io sono prima di tutto un musicista, ma ho fatto delle ricerche e ho cercato di tracciare un panorama, senza poter rispondere a tutte le domande relative alla nascita e alla storia di questa cultura musicale».
C’è un termine, poravna, che sembra particolarmente legato a questa musica. Cosa indica?
«Letteralmente vuol dire piatto, piano, liscio, disteso, ma musicalmente ha diversi significati, come ad esempio quello di "rubato". Il suo significato principale riguarda il repertorio di un genere musicale, il suo stile interpretativo, il modo di cantare, una famiglia di melodie, canzoni molto famose… con la distinzione tra musica rurale e musica cittadina».
Piuttosto complicato. E se tornassimo ad una definizione semplice della sevdah…
«È un genere eclettico che abbraccia diverse cose, e le sue canzoni sono in bosniaco, che è simile al serbo, al croato, e al montenegrino, con influenze ottomane e austriache. La sua bellezza deriva dal fatto che puoi ascoltarla e provare delle cose che non sapresti spiegare esattamente, e potresti scriverne o parlarne a lungo, ma che sfuggono a definizioni restrittive. Generalmente più che definirla, preferisco farla ascoltare, sia attraverso esempi del passato che del presente, ed è quello che farò a Perugia».