L'inizio del suo successo internazionale data al '91, quando Cesaria Evora aveva già cinquant'anni: una donna non giovane, non bella, che per di più cantava canzoni non esattamente gioiose. Vent'anni fa l'exploit della Evora fu una delle più potenti conferme del fenomeno della world music, capace di portare alla ribalta mondiale universi che fino a quel momento musicalmente si erano rivolti solo a se stessi: e persino universi piccolissimi come il Capo Verde, una manciata di isole nell'Atlantico, più diverse isole di terraferma, quelle delle comunità - più di metà dei capoverdiani del pianeta - che hanno trovato approdo a Dakar o Lisbona, a Rotterdam o Boston. Cesaria diventò l'ambasciatrice della sodade, quella sorta di malinconia capoverdiana in cui si esprime vuoi lo struggimento esistenziale del sentirsi abbandonati in mezzo all'oceano, vuoi una plurisecolare storia di sofferenze, vuoi il senso della lontananza dal proprio paese dell'emigrato.
Fenomeno nel fenomeno della world music, Cesaria si impose con una musica eminentemente acustica. José da Silva, il produttore artefice della sua trasformazione in una star, ha raccontato della rivelazione che ebbe al festival di Angoulême nel giugno del '91: Cesaria è presentata in un set double face, parte elettrico e parte acustico; si comincia con l'elettrico, e il pubblico è indifferente; quando poi si passa all'acustico, la platea rimane ipnotizzata. Mentre Mory Kante tenta disperatamente di bissare il colpo di "Yeke Yeke" (e continuerà sempre più pateticamente per un pezzo), e Salif Keita ammazza la propria voce prodigiosa in un sovraccarico di rock, funk, elettronica, tastiere e batterie (e anche lui continuerà a suicidarsi ancora a lungo), Cesaria infligge un durissimo colpo all'idea che per sfondare la world music debba fare concorrenza a Peter Gabriel. In fondo Cesaria Evora è un Buena Vista Social Club ante litteram e senza neanche bisogno di un Ry Cooder: e con la differenza che mentre nel '97 l'album della World Circuit propone un'immagine nostalgica e di comodo di Cuba, nel '91 la Evora comincia ad attirare l'attenzione internazionale con un patrimonio musicale che pur essendosi formato in epoche precedenti, è ancora pienamente attivo in quella identità collettiva capoverdiana di cui la musica dell'arcipelago è un elemento così essenziale. Anche se a ben vedere nel suo successo più che la autenticità reale della Evora come portatrice di una tradizione culturale e di un repertorio ha contato lo stesso astorico bisogno di "autenticità" e romanticismo che il pubblico occidentale ha indirizzato verso gli ottuagenari cubani.
Pur con queste ambiguità è d'altro canto positivo che Cesaria non sia stata bruciata nel volgere di qualche stagione, malgrado in effetti non abbia fatto altro nello spazio di due decenni che riproporre se stessa, la propria poetica e un certo tipo di repertorio senza sostanziali cambiamenti. E a José da Silva bisogna dare atto di avere tenuto la barra: già nella seconda metà degli anni novanta, tra un'estetica fortemente locale, nata non per l'esportazione e non nella logica della novità richiesta dal mercato, e un'intensa esposizione internazionale, la tendenziale contraddizione era evidente, e avrebbe potuto risolversi nella stanchezza del pubblico. Ma José da Silva ha comunque scommesso sulla preservazione dell'identità della musica della Evora, limitandosi a misurate operazioni di restyling e all'introduzione di qualche elemento o richiamo inediti ma non invadenti: e ha avuto ragione.
Poi forse bisognerà ragionare sull'effetto di proiezione sulla cantante del peculiare fascino del repertorio e della poetica musicale, proiezione che ha avuto l'effetto di mitizzarne le doti, e forse di distrarre da un certo suo deficit di modulazione interpretativa, da una certa sua fissità: la grandezza della Evora è consistita soprattutto nell'essere la depositaria e la credibile dispensatrice di una tradizione, e non tanto in un particolare virtuosismo e nemmeno a ben vedere in uno speciale pathos. Spesso (e ben prima di riascoltarla nel luglio scorso al festival di Villa Arconati) ci ha anzi colpito una sorta di - a suo modo affascinante - latitanza emotiva nell'interpretazione, di disincanto sentimentale, riflesso delle prove della vita e della misera routine canora nei bar di Mindelo. Quando arrivò al successo, Cesaria era una persona ferita da grandi delusioni, come cantante e come donna, in un contesto capoverdiano di per sé non allegro: e ascoltandola in questi vent'anni, fino al tour di quest'estate, l'impressione è rimasta che il successo sia stato per lei una rivincita, ma non sia bastato a renderla, anche se tardivamente, felice.
Fenomeno nel fenomeno della world music, Cesaria si impose con una musica eminentemente acustica. José da Silva, il produttore artefice della sua trasformazione in una star, ha raccontato della rivelazione che ebbe al festival di Angoulême nel giugno del '91: Cesaria è presentata in un set double face, parte elettrico e parte acustico; si comincia con l'elettrico, e il pubblico è indifferente; quando poi si passa all'acustico, la platea rimane ipnotizzata. Mentre Mory Kante tenta disperatamente di bissare il colpo di "Yeke Yeke" (e continuerà sempre più pateticamente per un pezzo), e Salif Keita ammazza la propria voce prodigiosa in un sovraccarico di rock, funk, elettronica, tastiere e batterie (e anche lui continuerà a suicidarsi ancora a lungo), Cesaria infligge un durissimo colpo all'idea che per sfondare la world music debba fare concorrenza a Peter Gabriel. In fondo Cesaria Evora è un Buena Vista Social Club ante litteram e senza neanche bisogno di un Ry Cooder: e con la differenza che mentre nel '97 l'album della World Circuit propone un'immagine nostalgica e di comodo di Cuba, nel '91 la Evora comincia ad attirare l'attenzione internazionale con un patrimonio musicale che pur essendosi formato in epoche precedenti, è ancora pienamente attivo in quella identità collettiva capoverdiana di cui la musica dell'arcipelago è un elemento così essenziale. Anche se a ben vedere nel suo successo più che la autenticità reale della Evora come portatrice di una tradizione culturale e di un repertorio ha contato lo stesso astorico bisogno di "autenticità" e romanticismo che il pubblico occidentale ha indirizzato verso gli ottuagenari cubani.
Pur con queste ambiguità è d'altro canto positivo che Cesaria non sia stata bruciata nel volgere di qualche stagione, malgrado in effetti non abbia fatto altro nello spazio di due decenni che riproporre se stessa, la propria poetica e un certo tipo di repertorio senza sostanziali cambiamenti. E a José da Silva bisogna dare atto di avere tenuto la barra: già nella seconda metà degli anni novanta, tra un'estetica fortemente locale, nata non per l'esportazione e non nella logica della novità richiesta dal mercato, e un'intensa esposizione internazionale, la tendenziale contraddizione era evidente, e avrebbe potuto risolversi nella stanchezza del pubblico. Ma José da Silva ha comunque scommesso sulla preservazione dell'identità della musica della Evora, limitandosi a misurate operazioni di restyling e all'introduzione di qualche elemento o richiamo inediti ma non invadenti: e ha avuto ragione.
Poi forse bisognerà ragionare sull'effetto di proiezione sulla cantante del peculiare fascino del repertorio e della poetica musicale, proiezione che ha avuto l'effetto di mitizzarne le doti, e forse di distrarre da un certo suo deficit di modulazione interpretativa, da una certa sua fissità: la grandezza della Evora è consistita soprattutto nell'essere la depositaria e la credibile dispensatrice di una tradizione, e non tanto in un particolare virtuosismo e nemmeno a ben vedere in uno speciale pathos. Spesso (e ben prima di riascoltarla nel luglio scorso al festival di Villa Arconati) ci ha anzi colpito una sorta di - a suo modo affascinante - latitanza emotiva nell'interpretazione, di disincanto sentimentale, riflesso delle prove della vita e della misera routine canora nei bar di Mindelo. Quando arrivò al successo, Cesaria era una persona ferita da grandi delusioni, come cantante e come donna, in un contesto capoverdiano di per sé non allegro: e ascoltandola in questi vent'anni, fino al tour di quest'estate, l'impressione è rimasta che il successo sia stato per lei una rivincita, ma non sia bastato a renderla, anche se tardivamente, felice.