Il centenario della nascita di Sam Rivers (sassofonista jazz, mi raccomando, Google o una giovinezza rap/metal potrebbero portarvi dal bassista dei Limp Bizkit) ci offre l’occasione per riflettere una volta di più sulla sua figura artistica, che è certamente tra le più trasversali, originali, inclusive e felicemente irrequiete di tutta la storia delle musiche afroamericane della seconda metà del Novecento.
Messosi in luce in casa Blue Note in età già avanzata (più “anziano” di un Bud Powell o di Miles Davis, esordiente quarantenne, un traguardo che molti maestri del genere talvolta nemmeno raggiungevano), godrà nel decennio successivo, anche e specialmente nel nostro paese, di una popolarità quasi incredibile col senno di poi (ne parleremo), rischiando di rimanere ingenerosamente intrappolato nell’immagine del simpatico freecchettone torrenziale anni settanta, mentre in realtà il suo magistero è stato assai più ampio e ragguardevole.
Per multistrumentismo, innanzitutto: sax tenore e soprano, ma anche flauto e pianoforte e voce, non per sfoggio di virtuosismo, ma per varietà di prospettiva esecutiva.
Per longevità: cinque decenni attraversati senza mai cedere alle lusinghe del manierismo o del conservatorismo. Per multistilismo: dopo la lunga gavetta a Boston viene sommariamente accostato alla pattuglia di sassofonisti modali degli anni Sessanta, etichetta da cui si svincola in modo inequivocabile andando a fare parte del quartetto di Cecil Taylor e poi incarnando per tutti i settanta quell’attitudine creativa libera della loft generation, ma ricomponendo poi nella fase finale della propria carriera i pezzi di un quadro in cui, dal solo all’orchestra più ambiziosa, tutte le possibilità creative vengono esplorate. Ma lasciamo che sia la sua musica, una volta ancora (e con l’ovvia avvertenza che questa selezione costituisce sono una parziale e, si spera, stuzzicante, porta di accesso a un mondo immensamente più vasto) a raccontarci chi è stato Sam Rivers.
1. Fuchsia Swing Song (Blue Note, 1964)
Primo lavoro a nome di Rivers per la Blue Note (in quartetto con Jaki Byard, Ron Carter e Tony Williams), riprende temi scritti qualche anno prima - il produttore Alfred Lion terrà i freni ben schiacciati per evitare da subito derive troppo “aperte” - ma la bellezza della musica e la freschezza delle dinamiche tra i musicisti e la febbricitante tensione degli assoli rendono il disco un piccolo classico. E “Beatrice” entrerà nel repertorio di molti altri musicisti.
2. Contours (Blue Note, 1965)
Scalpita, il nostro: ospite serpentino nei bellissimi Life Time dell’amico Tony Williams, Dialogue di Bobby Hutcherson o nell’oscuro Involution di Andrew Hill, lo troviamo più a fuoco con Freddie Hubbard, Herbie Hancock, Ron Carter e Joe Chambers nell’esplorazione di nuovi orizzonti formali di questa seconda prova a proprio nome.
Al tenore si aggiungono già flauto e sax soprano, l’architettura è più o meno quella del quintetto di Davis - in cui aveva fatto una fugace apparizione l’anno precedente - ma le linee prendono nuove direzioni.
3. Dimensions & Extensions (Blue Note, 1967, ma pubblicato nel 1975)
Il punto più alto del Rivers “architetto” per la Blue Note è però certamente questo lavoro in sestetto, non a caso tenuto nel cassetto per quasi un decennio e sdoganato quando Rivers era già un nome nella scena avant: quattro strumentisti a fiato con sette diversi strumenti solleticano la fantasia di Rivers, che dispiega qui umori complessi e forme mobili.
Blues, astrazione, assenza di vincoli armonici, nuovi accostamenti timbrici… il decennio che sta per arrivare è magnificamente anticipato qui!
4. Cecil Taylor, Nuits de la Fondation Maeght (bootleg vari, 1969)
Mai insensibile alle tensioni sociali e politiche, Rivers entra nella Jazz Composers Guild e lì viene a contatto con Cecil Taylor, che lo inserisce accanto a Andrew Cyrille e Jimmy Lyons nel quartetto protagonista delle epiche notti a Saint Paul de Vence, in Francia.
Uno dei momenti più iconici della storia del free, documentato da molti dischi non ufficiali, ma anche da questo suggestivo documento video.
5. Streams (Impulse!, 1973)
La collaborazione con Taylor è una sorta di “master” nel mondo New Thing e gli vale l’approdo in casa Impulse! Il primo lavoro che esce per l’etichetta arancio/nera è registrato dal vivo a Montreux in trio con Cecil McBee al basso e Norman Connors alla batteria.
L’improvvisazione libera in funzione della composizione istantanea, scandita dai cambi di strumento che si succedono con ineluttabilità quasi stagionale (il tenore a infuocare, la parte più lirica al flauto, quella astratta al piano e quella ipnotico/ossessiva al soprano) e che danno al tutto una struttura formale di grande sapienza.
6. Crystals (Impulse!, 1974)
Dopo Hues, che raccoglie registrazioni in trio, Rivers realizza uno dei suoi lavori più ambiziosi, un disco per vasto organico che possa rispondere ai progetti compositivi più ampi. Una roba che coinvolge complessivamente oltre 60 musicisti (ci sono anche Anthony Braxton e Hamiet Bluiett), un affresco che stratifica scrittura e improvvisazione, disegnando architetture d’avanguardia su piani strutturali tradizionali.
Megalomane quanto basta (ma erano anche gli anni del Centipede di Keith Tippett…), in realtà urticante prova della vastità del pensiero musicale di Rivers.
7. The Quest (Red Records, 1976)
La grande popolarità di Rivers sulla scena europea attentissima ai fermenti creativi e politici è testimoniata da una massiccia presenza nei festival di metà anni Settanta (parliamo di migliaia di spettatori eh…) e in diversi dischi (tra cui i due Black Africa! per la Horo), tra i quali spicca questo lavoro in trio registrato per l’italiana Red Records al festival di Bergamo e circolato poi molto tra gli appassionati grazie alle dispense Fratelli Fabbri in edicola.
Recentemente e finalmente ristampato da poco anche in cd, nell’essenziale trio con Dave Holland e Barry Altschul, è ancora oggi un prezioso saggio di fantasia stratificata.
8. AA.VV. Wildflowers (Casablanca/Douglas, 1977)
Nel frattempo Rivers e la moglie Bea hanno aperto a SoHo un loft che diventa il punto di riferimento per la scena creativa della Grande Mela. Allontanato e allontanatosi dai luoghi più tradizionali, il jazz più avventuroso trova in gallerie e luoghi non convenzionali gli spazi e le relazioni per esplorare dinamiche (artistiche, economiche, sociali) nuove.
Summa teologica del periodo, i tre volumi di Wildflowers, che coinvolgono in varie formazioni il gotha dell’improvvisazione newyorkese, da Braxton a Threadgill, da Marion Brown a Randy Weston. Oltre a fare da padrone di casa, Rivers partecipa anche in trio con l’incantatoria “Rainbows”.
9. Portrait (FMP, 1997)
Dopo un periodo di grande varietà (i Winds Of Manhattan da recuperare sicuramente), ma per molte ragioni meno incisivo come gli anni Ottanta, Rivers entra negli anni Novanta con l’esperienza di un veterano e la curiosità di un ragazzino.
Non solo prende parte a uno dei più grandi gioielli nascosti del jazz di quel periodo, il Summit Conference di Reggie Workman (prendete questa citazione come un obbligo a andarlo a riscoprire, vi prego), ma incide per la FMP un disco in totale solitudine che ne conferma, a più di 70 anni, l’immensa statura di improvvisatore.
10. Jason Moran, Black Stars (Blue Note, 2001)
Diversi i dischi da non perdere anche nel nuovo millennio (Rivers morirà nel dicembre del 2011), spesso insieme a altri più giovani maestri, come nel bellissimo Diaspora Soul inciso con Steven Bernstein per la Tzadik o in questa memorabile collaborazione con il trio Bandwagon del pianista Jason Moran, che da sempre attento agli “irregolari” (come Hill o Jaki Byard), ingaggia con l’anziano maestro un dialogo di potentissima tensione espressiva, rileggendo Byard o Ellington, ma anche portandolo dentro al proprio mondo per farlo esplodere come nel pezzo qui sotto.
Bonus Track. Sam Rivers & Dave Holland, Dave Holland / Sam Rivers voll. 1 & 2 (IAI, 1976)
Il rapporto con il contrabbasso di Dave Holland non si sviluppa solo nel trio e quartetto (Barry Altschul e la tuba di Jim Daley protagonisti), o nella partecipazione a un super classico a firma Holland come Conference of the Birds, ma anche in due volumi imperdibili di duetti in cui, con fantasiosa intimità, i due riescono a agire una continua elastica riterritorializzazione creativa dell’idioma afroamericano e delle sue tensioni irrisolte, tra avant e folk.
Piccolo scrigno di gioielli da consultare e ri-consultare senza sosta… vi linko tutto il primo volume, le bonus tracks in fondo servono proprio a questo!
Per scoprirne di più: samrivers.com/ (che contiene anche link agli inediti e ristampe più recenti).