Vicenza Jazz 3 | Giovani leoni e grandi vecchi

Le ultime due serate del festival: si chiude con Pharoah Sanders

Recensione
jazz
13 maggio. Il Teatro Comunale di Vicenza è una bella e moderna struttura. Il passaggio dall’Olimpico un po’ traumatizzante, ma le poltrone almeno sono più comode. Doppio set come per l’apertura del festival, ma qui il contrasto funziona. Due trii, uno con pianoforte, l’altro senza. Nella storia del jazz la forma trio è come uno specie di status symbol - in particolare il piano-basso-batteria - spazio dove si mettono in gioco interplay, capacità di ascolto, equilibri. In Italia le esperienze di Enrico Pieranunzi su questa forma sono tra le più pregevoli e riconosciute a livello internazionale. Tocco classico, introspezioni evansiane e forti accenni bop: il set a Vicenza, con Luca Bulgarelli al contrabbasso e Mauro Beggio alla batteria, conferma però come il pianista da anni perpetui il proprio mondo sonoro classicizzandolo, congelandolo in una forma che pare immutabile. Le capacità strumentali e compositive restano intoccabili, ma la proposta musicale è troppo uguale a se stessa. Tra l’altro, nella fascinazione per la melodia Pieranunzi rischia qualche soluzione troppo “facile”, d’effetto, che da un pianista del suo livello non ti aspetteresti. Ne soffrono anche i compagni di viaggio tenuti sotto controllo, sacrificati in un contesto estetico-creativo troppo rigido.

Fin troppo liberi invece i We Three che seguono. Tre discoli con qualche anno di storia sulle spalle che non paiono pesare poi tanto. Se non ci fossero stati seri problemi di amplificazione ad innervosirli, avrebbero dato sicuramente di più. Dave Liebman, Steve Swallow e Adam Nussbaum si conoscono fin dagli anni Settanta, e si vede e si sente. Rimpatriata sì, ma nessuna nostalgia, anzi: i tre hanno gran voglia di sorprendere e idee da vendere. Un set piacevole, energetico, costellato di momenti forti. Le ance di Liebman , soprattutto il soprano, sono ancora graffianti, capaci di lirismi inaspettati. Il basso elettrico di Swallow ancora ineguagliabile. Dolce, pulsante, caleidoscopio di colori ritmici. Nussbaum è spumeggiante come al solito. Usa tutto il set con una verve percussionistica notevole, complessa, dura ma sempre al servizio degli equilibri del gruppo.

Per chiudere la serata facciamo un salto al Cafè Trivellato. Sul palco il Luca Boscagin London Project. Il leader, chitarrista residente da anni a Londra, dimostra una bella capacità strumentale, grinta e lampi poetici. Retrogusto rock, tracce blues tra Mc Laughlin, Stern e Santana. Al pianoforte Tomasz Bura è un po’ prevedibile, meglio alle tastiere, visionario e creativo. Al basso elettrico Rick Leon James ha talento e dimostra di conoscere bene Pastorius. Gareth Brown picchia forte sui tempi pari creando un corposo groove urbano. Chiudono con una fin troppo mielosa Naima. Il momento giusto per andare a letto.

14 maggio. Il giorno dopo al Comunale sono di nuovo di scena forti contrasti. Aprono due talenti del jazz italiano: il pianoforte di Giovanni Guidi e il trombone di Gianluca Petrella. Set corposo, rischioso, dove i due attenuano virtuosismi a favore di un comune linguaggio di ricerca rigoroso, dialogo serrato dove si incrociano estremismi ma anche riflessioni solari. Petrella con il trombone riesce a fare tutto. Incontenibile, aggressivo, giocoso, ironico, passa da brillantezze neworleansiane ad ambientazioni claustrofobiche, in un controllo straordinario dei volumi e degli effetti con le sordine. Non solo smonta la musica ma fisicamente anche lo strumento, con la sola coulisse e un bicchiere riesce a tirar fuori un suono da violino. Da parte sua Guidi con una tale potenza sonora accanto non può che sviluppare un uso percussivo della tastiera producendo consistenti grappoli di accordi. Quando rimane solo, mostra la propria capacità di sfruttare tutta la tastiera in modo creativo, enciclopedico nel passare con personalità dalle suggestioni tayloriane agli aspetti più introversi del pianoforte contemporaneo. Anche puntillistico nei momenti più intimi. Un duo dalle potenzialità enormi.

Il cambio di scena è forte, da due musicisti immersi nella ricerca dell’oggi alla Storia: Pharoah Sanders. Appena il suo sax danzante apre con una cantilena coltraniana un brivido ti scorre per la schiena. Dalle inquietudini si passa ad un senso religioso della musica, a quel pensiero universale che negli anni Cinquanta travolse la comunità musicale afroamericana. Sanders è icona, testimone vivente di quella stagione, niente di più. Il suo set è come una lezione di storia, e, detto tra noi, un ripassino con un docente così non fa certo male. Il suono è sempre bello, caldo, sinuoso. La potenza no, la spasmodica ricerca dei confini timbrici del sax, le frasi laceranti che tanto colpirono Coltrane, lasciano oggi il posto a lunghi prologhi e improvvisazioni dolciastre ma profonde. Il quartetto lo supporta a dovere, con più professionismo che cuore.

Il problema è che il Grande Vecchio ci fa fare tardi. Arriviamo trafelati al Cafè Trivellato sotto la Basilica Palladiana dove ci travolge subito l’onda d’urto degli Istanbul Sessions. I decibel sono veramente tanti, le idee chissà, ma non c’è tempo di verificare. Buona notte.

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