Un Petrassi riscoperto al Festival Pontino
E poi Gianluca Littera con la sua armonica: un grande virtuoso per un piccolissimo strumento
A quattordici anni dalla morte di Goffredo Petrassi sembrerebbe impossibile che ci sia qualche sua composizione ancora da scoprire, invece il Festival Pontino ha presentato Adagioe Minuetto Variato, trascrizione o piuttosto elaborazione di una Sonata per violino e basso continuo di Haydn, che Petrassi realizzò nel 1955 per un amico, il violoncellista Arturo Bonucci.
Non si hanno notizie di esecuzioni in quegli anni, quindi era probabilmente la prima assoluta di quest’opera, conservata presso l'Istituto di Studi Musicali Goffredo Petrassi di Latina ed edita solamente ora. Non si tratta di un’opera fondamentale, però rivela un Petrassi insospettato, che si accosta a un neoclassicismo di marca stravinskiana, ben diverso dal neobarocco dei suoi esordi e ancor più dallo stile della sua musica egli anni Cinquanta. Come lo Stravinsky del Pulcinella, Petrassi gioca a mimetizzarsi con Haydn, confondendo le carte al punto che non si capisce più cosa sia di Haydn e cosa di Petrassi. L’elegante parte del violoncello solista è totalmente inventata da Petrassi e anche la nitida orchestrazione è interamente sua, ma avrebbe potuta scriverla Haydn stesso, talmente è ben imitato il suo stile.
Il giovane violoncellista Michele Marco Rossi si conferma un eccellente virtuoso, particolarmente attento alla musica moderna. Dopo di lui saliva sul palco un altro virtuoso, Gianluca Littera, che non è esagerato definire straordinario, sia per la sua bravura sia per lo strumento che suona, l’armonica a bocca. Si presenta a mani vuote e ci si chiede dove sia il suo strumento, che con un piccolo coup de théậtre egli estrae dalla tasca come un prestigiatore. È talmente piccolo che a prima vista sembrerebbe un telefonino, ma presto Littera dimostra di saper estrarne una varietà incredibile di sonorità. Esegue Immobile n. 2, scritto per lui da Ennio Morricone. Gli archi ripetono come un loop la stessa cellula melodico-ritmica con poche varianti e lo stesso fa l’armonica e tutto crea un senso di quasi totale immobilità: l’atmosfera ricorda quella di C’era una volta il West, impossibile resistere alla suggestione. Ma in omaggio al solista, qui Morricone chiede all’armonica di esplorare tutti i colori possibile e anche di più, culminando in una cadenza che si sarebbe tentati di definire paganiniana: è Littera stesso ad autorizzare il paragone, suonando come bis il Capriccio n. 24 di Paganini, sfidando l’impossibile con risultati incredibili.
Marco Angius, perfetto coprotagonista di questi primi due pezzi, ha concluso con la Sinfonia n. 7 di Beethoven, insieme all’ottima e affidabilissima Orchestra di Padova e del Veneto, che si è fatta apprezzare pur dovendo combattere contro l’acustica non certo ideale del giardino del Palazzo Comunale di Latina. Angius ha eseguito i quattro movimenti senza pause, a sottolineare l’unitarietà di questa sinfonia che – a differenza della ricerca di contrasti di alte consorelle, come l’Eroica – si basa su un principio unificante, il ritmo. Forse per la prima volta ho sentito il secondo movimento in un rapido tempo Allegretto, come indica Beethoven, e non quasi Adagio come vorrebbe Wagner a quel che scrive nell’Arte del dirigere e come fanno alcuni grandi direttori tedeschi nelle loro incisioni storiche, né Andante come generalmente si fa oggi. E il quarto movimento era il più veloce possibile, ma senza che questa velocità spianasse tutto, perché Angius gli dà un passo elastico e leggero (con brio, scrive Beethoven) e conserva una riserva di energia per un finale trascinante, bissato a grande richiesta.
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