Torino Jazz Festival, il sacro e la batteria

Si è chiuso, con la sonorizzazione dal vivo di Birdman, il festival torinese

Recensione
jazz
Purtroppo, per una serie di combinazioni e di impegni ho potuto seguire poco della seconda metà del Torino Jazz Festival: è l’antico problema di avere un festival sotto casa, quando si cerca di venire a patti con il sogno di vedere tutto, di vivere fino in fondo la dimensione-festival, e la realtà di una vita lavorativa fatti di incastri e corse in giro…

Sulla prima parte della rassegna – sulla carta anche la più interessante – ha già avuto modo di esprimersi Enrico Bettinello nel suo blog, con cui concordo in pieno (anche nell’avere individuato nell’omaggio a Don Cherry di Cristiano Calcagnile & co. il momento migliore di tutto il festival, insieme alla produzione dell’Orchestra del fuoco di Roy Paci con Hindi Zahra).



Il TJF è ora un festival in piena maturità, che – complice forse anche la maggiore durata – sembra aver perso qualcosa nella qualità dell’offerta dei main events dopo l’alto livello dell’anno scorso, ma a che a dispetto di proposte molto varie e (bisogna dirlo) non sempre centrate ha un’identità artistica e organizzativa chiara (ed è un grande complimento). Rimangono in parte insoluti alcuni temi che già in passato si erano ricordati in questa sede (e che anche Enrico Bettinello ha annotato), soprattutto circa la bulimia di un programma che punta a fare più cose possibili nel minor tempo possibile, e che rischia di cannibalizzare l’offerta prima e dopo la settimana del festival. Il sottile confine fra le politiche turistiche e quelle culturali, insomma… con l’impressione che spesso si tenda verso più verso le prime che verso le seconde. Da questo punto di vista, il Fringe soprattutto può probabilmente essere sfruttato meglio.

Sugli aspetti artistici, mi limito qui a riferire di due eventi molto attesi (almeno da me), che hanno restituito le (mie) aspettative solo in parte.

Il primo è il solo di sax che Dimitri Grechi Espinoza ha portato nella chiesa della Gran Madre venerdì 29 e sabato 30 (io ho assistito alla prima delle due esibizioni). Come ha avuto modo di spiegare lo stesso sassofonista, l’ispirazione per queste “preghiere sonore” per strumento solo risale a più di dieci anni fa, a un’esperienza nel duomo di Barga. Di recente, il progetto è diventato anche un disco, registrato nel Battistero di Pisa. Che cosa mi aspettavo: un set che sfruttasse lo spazio, un’improvvisazione continua, una meditazione più che un concerto. Che cosa ho ascoltato: un concerto di altissimo livello, con Espinoza che sfrutta il riverbero ambientale in modo interessante appoggiandosi spesso a soluzioni molto coltraniane. Complice qualche problema tecnico al sassofono, il riverbero forse non così “interessante” della Gran Madre, la scarsa sensazione di austerità o sacralità che quella chiesa trasmette (diciamolo, è bruttina!), più l’apparente impossibilità di ottenere il silenzio necessario (bip di fotografi improvvisati, chiacchiere, più il paesaggio sonoro esterno) la “meditazione” non decolla mai oltre la canonica sequenza pezzo-applauso-saluto-pezzo-applauso…

Il secondo è l’attesissima sonorizzazione live di Birdman per mano del batterista Antonio Sanchez, autore e interprete del geniale drum score del penultimo film di Iñarritu. A inizio concerto Sanchez ha anche raccontato la genesi della collaborazione, il suo primo incontro con il regista messicano, e soprattutto ha chiarito come una sorta di improvvisazione “controllata” fra lui e gli attori abbia guidato la costruzione dei fantastici pianosequenza interni al teatro, in cui la batteria è protagonista: le scene sono state infatti girate usando come riferimento per i movimenti degli attori le versioni editate di precedenti improvvisazioni di Sanchez, a loro volta basate sullo script. La versione definitiva della colonna sonora è stata poi reincisa a partire dal girato.



Nella sonorizzazione dal vivo al Cinema Massimo la batteria di Sanchez è piazzata a lato dello schermo, con poca luce. L’idea in sé è eccellente, e altrettanto lo è la realizzazione: Sanchez improvvisa seguendo le scene (solo quelle in cui compariva in origine la sua batteria), e lo fa benissimo. Che cosa non va allora? A seguire il film, ci si dimentica spesso della presenza fisica di Sanchez in scena, e la differenza fra una colonna sonora dal vivo e una registrata quasi non si avverte… A voi decidere se sia un appunto positivo o uno negativo. Per molti versi, non fa che dimostrare come Sanchez abbia saputo mettersi al servizio della pellicola, rimanendo fedele alla stessa anche quando il nome sul cartellone è il suo, e non quello di Iñarritu o di Michael Keaton.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

jazz

Pat Metheny è sempre lui: lo abbiamo ascoltato dal vivo a Madrid

jazz

La sessantunesima edizione della rassegna berlinese tra “passato, presente, futuro”

jazz

A ParmaJazz Frontiere il rodato duo fra il sax Evan Parker e l'elettronica di Walter Prati