Tim Berne e Chris Speed, un omaggio ai maestri
Alla testa del nuovo quartetto Broken Shadows, Berne e Speed rileggono le proprie radici musicali
Alla metà degli anni Novanta il Tim Berne’s Bloodcount era uno dei gruppi più avvincenti del sassofonista di Syracuse. Il leader, al contralto o baritono, era affiancato dal tenore di Chris Speed e dalla ritmica poderosa e insostituibile fornita da Michael Formanek e Jim Black. I brani, su cd della JMT o della Screwgun, etichetta autogestita dallo stesso Berne, erano lunghe escursioni avventurose, in cui l’improvvisazione assumeva un impianto compositivo, passando attraverso diversi spunti tematici e crescendo irresistibili. Oggi, dopo un intervallo di un quarto di secolo, i due sassofonisti si ritrovano a collaborare come co-leader del quartetto Broken Shadows, completato al contrabbasso e alla batteria rispettivamente da Reid Anderson e Dave King, da sempre anche membri fondamentali del trio The Bad Plus.
Come è cambiata la musica dei Bad Plus?
Rispetto alle scelte musicali di Bloodcount le cose sono cambiate sostanzialmente, non tanto per l’apporto dei due nuovi partner, quanto soprattutto perché è mutato lo spirito dei tempi, giustificando nelle intenzioni dei due leader un progetto totalmente nuovo, una sorta di rievocazione delle proprie origini con il senno di poi. Con questa formazione infatti i brani, prevalentemente a firma di Ornette Coleman, ma anche di Dewey Redman, Charlie Haden, Julius Hemphill ed altri, vengono affrontati con interpretazioni brevi, essenziali e solidamente concepite. A volte ci si trova di fronte piuttosto a rimasticazioni nello stile di questi maestri, pensate come parafrasi, meditazioni, re-immersioni in quel clima tanto amato. Si tratta quindi di un omaggio consapevole, decantato dalla sensibilità di oggi, a un preciso ambito storico, stilistico e poetico.
Per fare un esempio significativo, un caposaldo come “Song for Che” di Haden è stato introdotto da un lungo, strepitoso e coinvolgente assolo del contrabbassista, appunto hadeniano, determinato, risonante, ma con inflessioni malinconiche. Subito dopo, a differenza di quanto avveniva nei gruppi di Ornette o anche nelle interpretazioni del quartetto Old & New Dreams, nell’esposizione del famoso tema l’unisono di tenore e contralto non è esploso con la stessa cantabilità lirica, empatica, emozionante. Ha prevalso invece un approccio titubante, decantato, con la poca definizione che caratterizza un’immagine in un sogno annebbiato. Probabilmente questa scelta ha una sua ragione; sta di fatto che il confronto con l’originaria forza di quei precedenti storici è stato un po’ impietoso, lasciandoci una certa delusione.
Assai più convincenti, anzi con momenti trascinanti, sono risultati altri brani, reinterpretati in modo più trasversale e inventivo: per esempio i tesi brani in apertura e chiusura di concerto, con intrecci collettivi su ritmi sostenuti. In un blues d’impronta ornettiana, in cui la ritmica si è fatta più pacata e regolare, con un canonico walkin’ bass da parte di Anderson, l’eloquio dei due sassofonisti è emerso in modo scandito, lucidamente costruito, con inflessioni lamentose. Struggente e delicatissima si è stagliata la versione di “Broken Shadows” proposta come bis: lenta, astratta, tristissima.
Quanto all’apporto dei singoli, il pizzicato di Anderson prende le mosse indubbiamente da Haden, ma viene arricchito da un mobilissimo drive, da sapienti risonanze, sonorità e virtuosismi. Il drumming di King è pervadente, incalzante, saturo, intessuto di metriche variegate, senza possedere però la sintesi espressiva e la personalità di quelli di Blackwell o Higgins, e nemmeno quella di Jim Black. Le pronunce dei due sassofonisti ormai da oltre trent’anni hanno rinnovato radicalmente la tecnica sassofonistica coerentemente con le loro concezioni compositive e improvvisative, costituendo un riferimento imprescindibile per tanti strumentisti più giovani. Alla spigolosità apparentemente algida e razionale di Berne fa riscontro il sound cavo di Speed, più morbido e nasale; il loro connubio rappresenta un impasto di voci complementari, che nello sviluppo dei temi a volte s’inerpica in improvvisazioni fitte, intense e veloci.
L’operazione da loro condotta si può in qualche modo paragonare all’omaggio che Joshua Redman ha recentemente tributato al padre Dewey e al repertorio di Old & New Dreams. La differenza però sta nel fatto che fra la rilettura, pur amorevole, di quest’ultimo e gli originali storici presi a riferimento esiste uno iato generazionale e stilistico; al contrario le riproposizioni di Berne, Speed e compagni sono legate a quei modelli da una continuità d’ispirazione e di umori, da una derivazione diretta. Non è un caso se negli anni Settanta l’esordiente Berne è stato uno dei rarissimi allievi (forse l’unico) di quella figura emblematica che fu Julius Hemphill, che agì come uno dei trait d’union fra l’avanguardia del free storico e appunto gli esponenti che negli anni Ottanta hanno gettato le basi del jazz di oggi.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Stefano Battaglia e Mirco Mariottini chiudono ParmaJazz Frontiere
Pat Metheny è sempre lui: lo abbiamo ascoltato dal vivo a Madrid
La sessantunesima edizione della rassegna berlinese tra “passato, presente, futuro”