Sufjan, uomo e musicista

A Milano l'unica data italiana di Sufjan Stevens

Recensione
pop
DNA Concerti Assago
21 Settembre 2015
Qualcuno ha notato che la coincidenza di un concerto di Sufjan Stevens con l’inizio dell’autunno è intrigante. In realtà, a essere precisi, l’ultimo giorno d’estate non era veramente ieri, ma prendiamo per buona la congiuntura. Complice la location – il Teatro della Luna, una gigantesca struttura con vista tangenziale e Filaforum di Assago – il mood generale è davvero adatto alle malinconie del cantautore americano. Sufjan Stevens si è fatto vedere molto poco in Italia negli ultimi anni. Complice l’uscita dell’acclamato Carrie and Lowell qualche mese fa, l’unico passaggio nel nostro paese era annunciato come uno degli eventi della stagione: sold-out i quasi 1800 biglietti ben prima della data del concerto. Prevedibilmente, a Milano va in scena per intero il nuovo album. Nei dischi successivi al capolavoro Illinois (2005), Stevens aveva preferito affidarsi ad arrangiamenti ricchi, con formazioni orchestrali (The BQE) o con ampio uso di sintetizzatori e suoni elettronici, indulgendo spesso in un gusto un po’ barocco (The Age od ADZ). Al contrario, Carrie and Lowell è sembrato subito votato ad una radicale sobrietà: incastri acustici di chitarre, ukulele, banjo, piano, voci armonizzate, occasionali increspature elettroniche... Quasi una rilettura (una volta tanto, originale) del cliché del cantautore intimista e introspettivo, visti i temi: una sorta di rielaborazione del lutto per la morte della madre (la Carrie del titolo), che lo abbandonò ancora bambino. Nel live Stevens sceglie una via di mezzo fra il sobrio e il barocco, facendo galleggiare i pezzi fra sequenze arpeggiate e minimali, e aprendoli teatralmente con ritmiche elettroniche, suoni da dream pop, tappeti di sintetizzatori, filtri, bassi profondi. Sul palco si muovono in cinque, lui compreso, fra pianoforte, (tante) tastiere, batteria, chitarre, steel guitar, trombone e voci. Nonostante il contesto non aiuti l’intimità della performance, il tutto fila senza soste, con il pubblico silenzioso e rapito. È affascinante e difficilmente comprensibile il rapporto di un cantante con le sue canzoni più personali, sfoghi privati e dolorosi che vanno sul palco – sempre uguali – ogni sera in luoghi diversi, per persone diverse. Con buona pace della tanto pretesa "autenticità" che si richiede sempre agli artisti (concetto che sarebbe ora di abbandonare, nel nostro attribuire valore alla musica), sempre di "messa in scena" si tratta. Stevens sembra saperlo molto bene. Dopo la prima parte, chiusa da una lunghissima sequenza “cosmica” di synth e suoni digitali stratificati, rientra in scena quasi come un altro. Indossa il classico cappellino (prima assente), e pronuncia le prime parole della serata, come riportato alla realtà: «Grazie di aver ascoltato le mie canzoni. Scusate se sono così tristi» dice con ironia, scatenando una specie di risata liberatoria. I bis – “Concerning the UFO Sighting Near Highland, Illinois ”, “Casimir Pulaski Day”, “Chicago” – sono suonati con formazione più classica, con banjo e chitarra, e con un mood completamente diverso. Come fossero – quasi – canzoni di qualcun altro. Come se nella pausa il Sufjan-uomo avesse ceduto il palco al Sufjan-musicista. O viceversa.

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