Steve Coleman: scienza del groove e mestiere

La favolosa musica del sassofonista, con il progetto Five Elements alla Casa del Jazz di Roma, si accende solo a tratti

Steve Coleman Roma
Foto di Adriano Bellucci
Recensione
jazz
Casa del Jazz, Roma
Steve Coleman Five Elements
27 Luglio 2018

Doppia tappa a Roma per Steve Coleman con il progetto Five Elements, attivo dal 1981 e da allora instancabilmente alla ricerca  del groove perfetto. Il primo concerto è all'interno della rassegna Jazz is Now, organizzata alla Casa del Jazz di Via Delle  Fosse Ardeatine, a due passi da dove Nanni Moretti ha  ambientato  la celeberrima scena in Vespa di Caro Diario.

Cellule armoniche che non risolvono mai, moduli sospesi, spigoli sottili, monoliti non euclidei, lame affilatissime, scienza del groove, poliritmi, fragranze caraibiche, controllo totale del suono, tra rigore accademico e misticismo zen, afrori á la James Brown proiettato in uno spazio lontano e futuribile e obbligato a studiare numerologia, fisica, astronomia, anguori hip hop: Tutto si tiene nel calderone – a tratti bollente e a volte invece ghiacciato – preparato dalla band, un collettivo a formazione variabile che avevamo visto vent'anni fa nei gloriosi spazi del Tpo di Viale Irnerio a Bologna.

L'unico membro rimasto da allora è proprio il leader, affiancato in questa fase da Sean Rickman alla batteria, Jonathan Finlayson alla tromba, Anthony Tidd al basso elettrico e il rapper sui generis Kokayi.

Steve Coleman Roma

Il canovaccio su cui sono imbastite le fitte trame tessute dai cinque prevede solitamente un'introduzione in solo al sax alto, con l'esposizione di un tema che poi viene ridotto all'osso, spolpato sino a divenire un modulo, un numero primo, sul quale poi costruire il groove, con incastri complicati ma (quasi) sempre fluidi tra basso e batteria, con la tromba a intervenire dando però a volte l'impressione di non essere così dentro al pensiero ritmico che informa in maniera ossessiva e totalizzante questa musica.

Assolutamente pregevoli i momenti in cui il groove si fa secco, essenziale, indugia su clavi cubane articolate e incalzanti cui è impossibile resistere; meno coinvolgenti i frangenti in cui il quintetto pare un poco specchiarsi nella sua padronanza tecnica fuori dall'ordinario, con il basso che spinge implacabile un 7\8 mentre la batteria cadenza un sornione beat hip hop, su cui la voce di Kokayi improvvisa rime piene di soul e di funk.

Vista la statura del leader, le aspettative però sono sempre, inevitabilmente alte, e stasera restiamo in parte delusi: veri brividi arrivano nei momenti in cui, come un meccanismo calibrato al millesimo di secondo, il groove rallenta quasi dovesse spegnersi, oppure il ritmo deraglia per un po' dalle dorate gabbie in cui è stato rinchiuso, ricordandoci lo stupore di quando ascoltammo per la prima volta un capolavoro come The Tao of Mad Phat (a.d. 1993) e suonando come la benvenuta rovina di una serie numerica di Fibonacci.

In altri momenti affiora un filo di mestiere e non si avverte il fuoco che deve animare necessariamente una musica che si presenta invece, a volte, troppo algida, accademica, distante. Come la luna in eclissi che incombe misteriosa sulle nostre teste nello splendido scenario del parco della Casa del Jazz e che distrae una parte del pubblico, che si alza per osservare il cielo, forse non trovando sul palco i viaggi astrali desiderati.

Interessante e inaudito, nel senso assolutamente positivo del termine, il trattamento riservato a "Round Midnight" di Monk, liofilizzata e congelata in una capsula asettica e laboratoriale. Tra parentesi che paiono quasi dei bop sotto radice quadrata o degli swing ipermetrici e ipertrofici, dove però il groove di rado arriva, come si vorrebbe, spietato e in faccia, il live resta a metà del guado e, dopo un (finalmente) travolgente sabba poliritmico tra matematica applicata e sfrenate danze tra santeria e Africa (Coleman ha collaborato con gli AfroCuba di Matanzas per The Sign and the Seal del 1996), con i campanacci a scandire una clave sbilenca e perfetta, e un bis (troppo) breve, quasi buttato via, per voce e batteria, finisce. Lasciando intatta, e non potrebbe essere altrimenti, la nostra stima per un musicista fuori dal comune, ma che questa volta non ci ha rapito come speravamo.

Confidiamo accadrà nuovamente nel prossimo futuro.

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