Sommelo 4 | Memoria russa

Ultima puntata per il festival finlandese, che sconfina in Viena Karelia

Recensione
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È il primo luglio. Passati cinque controlli di frontiera (uno finlandese e quattro russi) inizia il viaggio verso Uhtua, nella Viena Karelia. Nello stagionato van siamo in sei: il direttore artistico del festival e la produttrice esecutiva, documentaristi bretoni e un collega giapponese. Dopo un po’ il paesaggio cede alle brutture delle condotte industriali che attraversano i margini della foresta. A volte creano dei veri e propri ponti sulla sede stradale.
Tre ciminiere si stagliano verso l’alto: siamo a Kostamus, una città mineraria dalle alterne fortune. In quest’area l’Ikea si approvvigiona di alberi per i suoi prodotti. Si procede per ore su una strada che rassomiglia più a una pista battuta che una via essenziale di collegamento. Dopo cinque ore arriviamo a Uhtua, situata sul lago Keski-Kuittijärvi. Prima dei concerti un tour guidato da Markku Nieminen, del Juminkeko, ci conduce a visitare la luoghi in cui Lönrott incontrò uno dei suoi informatori. La Viena Karelia è un’area remota: qui la modernizzazione è iniziata più tardi e l’influenza ortodossa è stata più tollerante nei confronti della musica e delle conoscenze folkloriche. Dopo la riapertura del confine nel 1992, Marku e sua moglie Sirpa, altra mente pensante di Sommelo, si sono posti la missione di far conoscere questi villaggi remoti, culla dell’epos finnico. Alla sera i primi concerti si tengono in una casa della cultura, in perfetto stile sovietico. Arja Kastinen, una delle migliori suonatrici di kantele, presenta il suo gruppo di venti stagisti, che in pochi giorni di corso hanno dato il meglio di sé con risultati eccellenti. Poi tocca ai due cori della parte sud-occidentale della Karelia, che abbiamo già incontrato a Kuhno. La notte trascorre ai margini dell’hotel Sampo, dove siamo alloggiati, con musica e danze. I Noid di di Petrozavodsk propongono il loro folk rock, mentre l’armonium di Eero Grundstöm passa dalle danze romene dei lautari a quadriglie senza soluzione di continuità. L’unico elemento di disturbo sono le zanzare, che in numero copioso manifestano tutta la loro aggressività, mitigata solo da massicce dosi di lozione repellente.
Di buon mattino si parte per Haikola: piccolo insediamento agricolo di casette in legno, abbandonato; Miihkali Stepanov vi è tornato con la sua famiglia e ora ne custodisce, in certo senso, la memoria. Il villaggio, che si trova su una piccola isola sul Kätijärvi, risuona di musica. La prima visita è ad un piccolo cimitero ortodosso , dove è sepolto Ortjo Stepanov (1920-1998), scrittore, padre di Miihkali, sorta di aedo del popolo kareliano, personaggio scomodo per il regime sovietico. Oggi una fondazione a suo nome conserva l’eredità culturale del villaggio. “Lampaan”, canzone preferita di Ortjo, viene intonata dai presenti in un’atmosfera che si fa carica di suggestioni. Nei cimiteri, che come usanza locale si visitano solo al mattino, si lascia che tutto si decomponga con il tempo, senza intervento alcuno: neppure il ramo di un albero viene tagliato. In una delle case del villaggio, diventata una sala per concerti, si susseguono le esibizioni in un ambiente dominato dall’informalità. Molti degli artisti li abbiamo già ascoltati a Kuhmo, ma in questi luoghi la loro musica acquista nuova risonanza, ci riempie. Tra gli altri, ascoltiamo rapiti Pekka Huttu-Hiltunen intonare un canto runico: chiude gli occhi e penetra nella storia di antiche gesta di Väinämöinen. Più tardi Pekka mi racconta del senso di estraniazione dal contesto che assume durante il canto, e di come sia difficile talvolta rientrare nel presente una volta terminata la lunga storia cantata. La pioggia si arresta è allora è il caso di andare a godersi una savusauna, che è la forma rurale della sauna più comune. A seguire, tonificante nuotata nel lago. Ritornati a Uthua, in compagnia di Pekka, un piccolo gruppo di noi si reca nella sede dell’associazione impegnata nella rivitalizzazione della lingua kareliana. Qui, dopo aver appreso dei progetti in corso, e ascoltata la breve esibizione di Tarina, un quartetto di giovanissime interpreti (14-16 anni), ci rapisce la figura dell’ottantaquattrenne Helmi Rekina, donna minuta, ma dalla forte presenza: è una delle ultime detentrici del sapere narrativo musicale locale. La voce le dà problemi, ma la sua prontezza nel rispondere al cellulare alla figlia confermano una personalità lucida. Non mostra ritrosia e riserbo nel cantare: Pekka cerca di indurla a cantare subito un raro yoik careliano, ma Helmi è ben decisa a fare le cose secondo il suo schema. Nell’arco di mezz’ora, ascoltiamo un canto runico, uno yoik, canti di nozze e perfino un breve lamento funebre. Siamo tutti emozionati e consapevoli dell’unicità del momento che stiamo vivendo.
Ritornati all’hotel Sampo in riva al lago, nella ora mite notte nordica, cerchiamo di difenderci dal solito attacco di insetti. Davanti a un po’ di birre, commentiamo le emozioni di una giornata indimenticabile di questa manifestazione davvero unica che è il Sommelo Ethno Musica Festival. Non siamo di fronte ad un semplice folk festival. In Sommelo c’è di più: incanto, passione, perseveranza, idea di preservare, ma anche diffondere e senza chiusure verso nuove formulazioni e declinazioni del canto, espressioni culturali uniche. È un’avventura culturale che si vive intensamente. La speranza è che più appassionati possano viverla, senza invasioni, con sobrietà, con il rispetto che è dovuto ai luoghi, a coloro che ci vivono a coloro che se ne sono andati, ma la cui memoria permane, soprattutto nel canto.

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