Settant'anni per uccidere le etichette

L'estensione dei diritti fonografici in Europa limita la diffusione della musica

Recensione
jazz
Il 12 settembre scorso la Commissione Europea ha emanato una direttiva che estende di vent'anni la proprietà fonografica della musica registrata, che passa da cinquanta a settant'anni. Vuol dire che la casa discografica rimane proprietaria della registrazione per settant’anni dalla pubblicazione, e che quindi l’artista è tutelato nella remunerazione delle royalty discografiche per un periodo più ampio (negli Stati Uniti è di novantacinque anni). La direttiva, che entro due anni dovrà essere recepita dagli stati membri, è stata approvata a larga maggioranza, con il voto contrario di Belgio, Repubblica Ceca, Olanda, Lussemburgo, Romania, Slovenia, Slovacchia e Svezia e l’astensione di Austria e Estonia. L’Italia dunque ha votato a favore.
La motivazione ufficiale della direttiva è di tutelare gli artisti ancora in vita, e in effetti le nuove norme contengono indicazioni dettagliate relative ai rapporti che devono intercorrere tra case discografiche e artisti. In realtà la direttiva protegge soprattutto i musicisti che occupano larghe fette di mercato che, per non vedere cadere la musica nel pubblico dominio, hanno fatto pressione sulla Commissione. Tra i più convinti sponsor ci sono anche gli U2 del “compagno” Bono Vox, che dobbiamo ringraziare per una scelta legislativa destinata ad affossare ulteriormente la diffusione della musica registrata. Infatti fino ad ora dopo cinquant'anni chiunque poteva usare la musica fuori diritti. Faccio il caso del jazz poiché è quello che mi è più familiare. Il mercato discografico del jazz in Europa è fiorentissimo grazie alla possibilità di ristampare musica che non appartiene più alle case discografiche di origine. Così un’etichetta con sede sociale in Francia (come la mitica Classics) può ristampare dischi che altrimenti nessun altro sarebbe interessato a pubblicare: ad esempio tutto Charlie Parker, o il meglio di Coleman Hawkins, o le rarità di Duke Ellington. Veri e propri capolavori su cui si fonda la conoscenza e l’apprezzamento della musica. Le piccole etichette indipendenti vanno a colmare un vuoto lasciato dalle major, e infatti in qualche misura resistono alla crisi e alla pirateria che hanno messo in crisi i giganti. Una funzione culturale riconosciuta anche negli Usa, dove la copertura più lunga della proprietà discografica inibisce le ristampe e una più profonda conoscenza del jazz storico, e dove dunque acquistano le ristampe europee.
Da domani questo non sarà più possibile: le case discografiche avranno il lucchetto della musica. È vero che la direttiva impone che le case discografiche, se non ristampano il materiale entro un certo lasso di tempo, dovranno restituire i diritti agli autori. Ma molte delle etichette di cui stiamo parlando, almeno nel jazz, sono americane, e la Savoy (o la società che l’ha rilevata) negli Usa non sarà tenuta a restituire i diritti agli eredi di Don Byas, mentre in Europa quei dischi non potranno più essere pubblicati. Le piccole etichette dovrebbero chiedere licenze per pubblicare materiale minore ma di grande valore musicale e storico: ma questo costa, e conduce a ristampe ad edizione limitata, come quelle dell’americana Mosaic. Per le etichette europee le soluzioni saranno due: chiudere o trasferirisi nei paradisi fiscali. In entrambi i casi sarà una mazzata per l’economia europea, le sue piccole imprese e i consumatori. E il panorama culturale sarà infinitamente più povero. Complimenti, signori della UE e i loro sponsor: un vero capolavoro per contenuti e tempismo.

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