Sam Rivers 1923-2011

La sua vita di sassofonista è una storia del jazz

Recensione
jazz
Quella del sassofonista Sam Rivers - scomparso il 26 dicembre scorso - è stata una delle carriere più singolari del jazz contemporaneo, sul piano generazionale e stilistico. Nato nel 1923, a pensarci bene era della stessa generazione dei Charlie Parker (1920), Bud Powell (1924), Miles Davis (1926) ma Rivers - un padre cantante gospel, studi classici al conservatorio di Boston - è uscito dall’anonimato solo nel 1964, a 41 anni, quando suonò brevemente nel quintetto del coetaneo Miles Davis, nel posto che poi sarà di Wayne Shorter. I dischi Blue Note della fine degli anni Sessanta - su tutti "Fuchsia Swing Song" - lo fotografano in armonia con la scuola modale degli Andrew Hill, Tony Williams, Herbie Hancock, anche se attraversato da singolari asperità di suono e stile. Inquietudini che prendono la forma di una visione originale solo negli anni Settanta, il periodo d’oro della sua musica, che sboccia quando il sassofonista è ornai sulla cinquantina, quando cioè un jazzista è dato per finito. Sono anni duri per il jazz: i locali chiudono, il pubblico giovanile volta le spalle al jazz, i festival invitano gruppi rock, i musicisti più audaci fanno la fame, emigrano in Europa o si danno all’insegnamento. Per Rivers l’importante è continuare a suonare, foss’anche per quattro gatti. Mancano gli spazi? Sam e sua moglie Bea hanno un loft spoglio e disadorno e fanno di questo stanzone - ribattezzato Rivbea Studio - uno spazio aperto, un luogo di incontro. L’esempio si diffonde per mezza America, convince anche Ornette Coleman (che apre la sua Artist’s House) e diventa un modello alternativo che funziona. La scena dei loft dura solo qualche anno, ma consente al miglior jazz di ricerca di sopravvivere. Rivers da il meglio di se in questi anni. Partecipa al clamoroso album Conference of the Birds di Dave Holland e si mette alla testa di un trio: prima con basso e batteria (Dave Holland e Barry Altschul) poi con il basso tuba di Joe Daley al posto di Holland. È il cosiddetto Tuba Trio, a cui dobbiamo alcune delle pagine più travolgenti del free jazz degli anni Settanta. Rivers vi suona il sax tenore, il flauto e, con foga naïf, il pianoforte. La musica slitta da un’atmosfera all’altra con un’urgenza mingusiana, incalzata dallo swing della ritmica, percorsa dalle zampate abrasive del sax di Rivers e dai guizzi del flauto, dilagando in episodi di energia incendiaria. Chi frequentava i festival italiani degli anni Settanta - da Umbria Jazz a Pisa, da Pescara Jazz a Lovere - ricorda la contagiosa eccitazione di quel gruppo, dagli avvincenti cambi di colore, a cui la tuba di Daley conferiva una singolare prospettiva stilistica. Gli anni Ottanta, come prevedibile, non sono stati clementi con Rivers, che è faticosamente riemerso solo negli ultimi vent’anni, alla testa soprattutto di una brillante orchestra che ruotava intorno al suo glorioso loft. Ma, comprensibilmente, la lucida energia di un tempo era andata. Rimangono i capolavori degli anni Settanta: musica di cui oggi quasi nessuno si ricorda, oggetto di una rimozione del mercato. Infatti come molto jazz di quegli anni, alcuni dei migliori dischi di Rivers - ad esempio quelli del Tuba Trio - non sono mai stati ristampati su cd e non sono reperibili in digitale, almeno nei canali legali. Per fortuna si trovano i dischi Impulse (da ascoltare almeno "Hues" e "Waves") e l’imprescindibile "The Quest". Ma le nuove generazioni di studenti e appassionati non li conoscono, ignorano il nome di Rivers e vedono al posto degli anni Settanta un buco nero, quando invece lì c’era una grande stella. È tempo di riportare Sam Rivers nel firmamento del jazz.

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