Rumore giallo
il "japanoise" di Keiji Haino strega lo Spazio 211
Recensione
pop
Quell’eterogenea galassia di musiche che cataloghiamo sotto l’etichetta “noise” risponde – in fondo - a norme e strategie molto specifiche, talvolta stereotipate. La discriminante è, come spesso accade in manifestazioni artistiche la cui origine è radicata nel provocatorio, la credibilità di chi produce il “rumore” a nostro beneficio. Keiji Haino è figura chiave del rumorismo nipponico, una sub-galassia di questa nobile arte cui spesso ci si riferisce con il termine “japanoise”. Sono più di un centinaio i coraggiosi a fronteggiare il muro del suono del giapponese allo Spazio 211. Haino, splendido ultracinquantenne dal volto efebico, lunghissimi capelli, occhiali neri alla Lou Reed (e il newyorkese di “Metal Machine Music” è più di un semplice modello per l’abbigliamento) orchestra il suo volume con sensibilità classica, alternando pieni di feedback epici, quasi wagneriani, a bassi ribollenti, ad aperture liriche di intensa e nitida bellezza. La matrice è inequivocabilmente rock: c’è la chitarra elettrica, c’è un muro di valvolari Fender. Lontano anni luce dal glitch e dal “rumore” intellettuale e “bianco” (in tutti i sensi) di un Fennesz - per citare un recente passaggio torinese - Haino non si nasconde dietro laptop e mixer, ma scolpisce il suo suono primariamente con la pedaliera della chitarra: pochi ed economici gli effetti: distorsioni, una loop station, un delay, equalizzatori. Il flusso segue un suo sviluppo sintattico: si incattivisce e prende ritmi acidi quando intervengono campioni di batteria a disciplinarlo. Cala liricamente quando Haino canta, in un etereo falsetto; si apre in un urlo liberatorio, distorto, quando grida. Samurai del rock, Haino ha il blues, Hendrix, il free jazz, Zorn e il “suo” Ribot, Lou Reed e il drone. Musica catartica, da amare senza ritegno o da odiare, da seguire con il corpo, capace di portare nelle profondità del cuore nero della città. Musica – senza nessun dubbio – e musica sublime.
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