Ricordarsi di Gaslini
La morte del pianista e i media italiani
Recensione
jazz
Finezza vorrebbe che al funerale di Giorgio Gaslini i Goblin inviassero almeno una bella corona di fiori.
Perché ieri, a occhio e croce, un bel po’ di diritti Siae in più sono entrati nelle loro tasche dalla trasmissione del celebre tema di Profondo Rosso, evocato in ogni notizia e servizio sulla scomparsa del grande pianista e compositore.
L’aveva scritta, Gaslini, certo, la colonna sonora di Profondo Rosso, ma mica tutta. Metà era sua (con brani splendidi come "Gianna"), ma l’altra metà, compreso il tema principale (l’unico che tutti ricordano, alla fine) era dei Goblin.
Ma per i nostri media ecco che muore Gaslini e parte la musichetta del film di Dario Argento!
Accade anche al TG1 delle 13.30: sotto le parole della giornalista scorrono dapprima le immagini di Gaslini che suona da solo negli anni Ottanta, poi la faccia imbambolata di David Hammings nel film di Argento (e vai di pippi-pì pippi-po’ pippi-pippi-pà pippi-pippi-piiiiiipipi) e poi, per non farci mancare nulla, ecco delle belle immagini di un gruppo con Franco Cerri alla chitarra e al pianoforte… Enrico Intra (che immaginiamo ora intento a comporre un nuovo brano per quattro mani, due delle quali rimangono in tasca a scopi, per così dire, apotropaici).
Non merita questo, Giorgio Gaslini. Per il valore culturale, musicale, umano che ha saputo dimostrare in tanti anni di carriera. Perché in un Italia televisiva che celebra qualsiasi teca, scheggia, frattaglia della propria storia come se si trattasse di momenti cruciali dell’evoluzione del mondo, Giorgio Gaslini non può essere ricordato per Profondo Rosso o scambiato per un collega con cui condivide i capelli bianchi.
Non merita questo un uomo che ha dato al jazz non solo pagine meravigliose e dense di intelligenza musicale, da Tempo e relazione del 1957 a quel Nuovi sentimenti/New Feelings con alcuni giganti della new thing come Gato Barbieri e Don Cherry, pubblicato nel 1967, ma ancora ll fiume furore, Grido, Africa, pubblicati tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, in una temperie politica e culturale che lo ha visto capace di un impegno personale intenso e mai scontato.
Non merita questo un musicista che ha praticamente “inventato” la didattica jazz in un paese che la ignorava, stabilendo i primi contatti con i Conservatori e conducendo laboratori da cui sarebbero usciti alcuni dei musicisti più significativi del panorama jazz italiano, da Massimo Urbani a Tiziana Ghiglioni. Non lo merita il visionario pensatore, capace di teorizzare una musica “totale” prima degli altri e di metterla in pratica attraverso una vorace esplorazione di ambiti, forme, possibilità.
Le colonne sonore sono state una parte, certo non trascurabile, più di quaranta, di questo approccio “totale”: a partire da quelle musiche per La notte di Antonioni premiate nel 1962 con il Nastro d’argento. Ma scorrendo la sua intensa discografia spicca la capacità di scrivere opere complesse per cantanti, attori, coro e big-band (Colloquio con Malcolm X del 1974) e di dialogare con personalità altissime del jazz contemporaneo come Anthony Braxton o Roswell Rudd, come quell’Ornette Coleman cui lo legavano alcune affinità e una curiosa amicizia. E ancora le composizioni più legate all’ambito contemporaneo, il corposo songbook, le riletture – straordinarie – di Monk o di Ayler (il disco dedicato al sassofonista, visto attraverso una prospettiva bachiana, rimane secondo me uno dei gioielli del jazz italiano di sempre) e le tante idee musicali che con passione riusciva a condividere con chi aveva il piacere di incontrarlo.
Ha avuto una personalità molto forte – e non sempre facile – Giorgio Gaslini, sorretta da una finezza d’animo e da una curiosità sempre guidata dall’intelligenza che non poteva non colpire anche chi, magari generazionalmente, non si sentiva totalmente in sintonia con la sua “visione”. Ricordo un bell’incontro pubblico, al Festival di Bergamo del 2009, nel quale Gaslini fu invitato – rovesciando le parti – a intervistare tre critici. Sottoposti alle sue taglienti e ironiche domande eravamo Vittorio Franchini, Angelo Foletto e io, e la cosa fu non solo molto divertente, ma anche ricca di spunti lontani da ogni banalità e luogo comune sull’argomento.
Con Giorgio Gaslini se ne va probabilmente il musicista che più di ogni altro ha costruito le basi per un jazz italiano che fosse al tempo stesso di respiro internazionale e che raccontasse, forse un po’ utopicamente, una visione artistica in grado di metabolizzare tutto in una sorta di respiro universale. In questo, forse, Gaslini ricordava un po’ Sun Ra, a cui ha dedicato, nel 2005 un omaggio e cui lo accomunava anche l’entusiasmo con cui si lasciava coinvolgere in bizzarri patchwork come quello del video qui sotto:
Se vi capita, recuperate qualche suo vecchio lavoro. Perché ricordarsi di Gaslini solo per un pezzo dei Goblin o la nuca di Enrico Intra è davvero una cattiveria che Giorgio, pur con tutta la sua ironia, non avrebbe mai meritato.
Perché ieri, a occhio e croce, un bel po’ di diritti Siae in più sono entrati nelle loro tasche dalla trasmissione del celebre tema di Profondo Rosso, evocato in ogni notizia e servizio sulla scomparsa del grande pianista e compositore.
L’aveva scritta, Gaslini, certo, la colonna sonora di Profondo Rosso, ma mica tutta. Metà era sua (con brani splendidi come "Gianna"), ma l’altra metà, compreso il tema principale (l’unico che tutti ricordano, alla fine) era dei Goblin.
Ma per i nostri media ecco che muore Gaslini e parte la musichetta del film di Dario Argento!
Accade anche al TG1 delle 13.30: sotto le parole della giornalista scorrono dapprima le immagini di Gaslini che suona da solo negli anni Ottanta, poi la faccia imbambolata di David Hammings nel film di Argento (e vai di pippi-pì pippi-po’ pippi-pippi-pà pippi-pippi-piiiiiipipi) e poi, per non farci mancare nulla, ecco delle belle immagini di un gruppo con Franco Cerri alla chitarra e al pianoforte… Enrico Intra (che immaginiamo ora intento a comporre un nuovo brano per quattro mani, due delle quali rimangono in tasca a scopi, per così dire, apotropaici).
Non merita questo, Giorgio Gaslini. Per il valore culturale, musicale, umano che ha saputo dimostrare in tanti anni di carriera. Perché in un Italia televisiva che celebra qualsiasi teca, scheggia, frattaglia della propria storia come se si trattasse di momenti cruciali dell’evoluzione del mondo, Giorgio Gaslini non può essere ricordato per Profondo Rosso o scambiato per un collega con cui condivide i capelli bianchi.
Non merita questo un uomo che ha dato al jazz non solo pagine meravigliose e dense di intelligenza musicale, da Tempo e relazione del 1957 a quel Nuovi sentimenti/New Feelings con alcuni giganti della new thing come Gato Barbieri e Don Cherry, pubblicato nel 1967, ma ancora ll fiume furore, Grido, Africa, pubblicati tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, in una temperie politica e culturale che lo ha visto capace di un impegno personale intenso e mai scontato.
Non merita questo un musicista che ha praticamente “inventato” la didattica jazz in un paese che la ignorava, stabilendo i primi contatti con i Conservatori e conducendo laboratori da cui sarebbero usciti alcuni dei musicisti più significativi del panorama jazz italiano, da Massimo Urbani a Tiziana Ghiglioni. Non lo merita il visionario pensatore, capace di teorizzare una musica “totale” prima degli altri e di metterla in pratica attraverso una vorace esplorazione di ambiti, forme, possibilità.
Le colonne sonore sono state una parte, certo non trascurabile, più di quaranta, di questo approccio “totale”: a partire da quelle musiche per La notte di Antonioni premiate nel 1962 con il Nastro d’argento. Ma scorrendo la sua intensa discografia spicca la capacità di scrivere opere complesse per cantanti, attori, coro e big-band (Colloquio con Malcolm X del 1974) e di dialogare con personalità altissime del jazz contemporaneo come Anthony Braxton o Roswell Rudd, come quell’Ornette Coleman cui lo legavano alcune affinità e una curiosa amicizia. E ancora le composizioni più legate all’ambito contemporaneo, il corposo songbook, le riletture – straordinarie – di Monk o di Ayler (il disco dedicato al sassofonista, visto attraverso una prospettiva bachiana, rimane secondo me uno dei gioielli del jazz italiano di sempre) e le tante idee musicali che con passione riusciva a condividere con chi aveva il piacere di incontrarlo.
Ha avuto una personalità molto forte – e non sempre facile – Giorgio Gaslini, sorretta da una finezza d’animo e da una curiosità sempre guidata dall’intelligenza che non poteva non colpire anche chi, magari generazionalmente, non si sentiva totalmente in sintonia con la sua “visione”. Ricordo un bell’incontro pubblico, al Festival di Bergamo del 2009, nel quale Gaslini fu invitato – rovesciando le parti – a intervistare tre critici. Sottoposti alle sue taglienti e ironiche domande eravamo Vittorio Franchini, Angelo Foletto e io, e la cosa fu non solo molto divertente, ma anche ricca di spunti lontani da ogni banalità e luogo comune sull’argomento.
Con Giorgio Gaslini se ne va probabilmente il musicista che più di ogni altro ha costruito le basi per un jazz italiano che fosse al tempo stesso di respiro internazionale e che raccontasse, forse un po’ utopicamente, una visione artistica in grado di metabolizzare tutto in una sorta di respiro universale. In questo, forse, Gaslini ricordava un po’ Sun Ra, a cui ha dedicato, nel 2005 un omaggio e cui lo accomunava anche l’entusiasmo con cui si lasciava coinvolgere in bizzarri patchwork come quello del video qui sotto:
Se vi capita, recuperate qualche suo vecchio lavoro. Perché ricordarsi di Gaslini solo per un pezzo dei Goblin o la nuca di Enrico Intra è davvero una cattiveria che Giorgio, pur con tutta la sua ironia, non avrebbe mai meritato.
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