Riccardo Sinigallia, la sottile arte della canzone
Il meglio che il pop italiano del 2019 sa offrire, in concerto Teatro Bibiena di Sant'Agata Bolognese
Riccardo Sinigallia scrive le canzoni che canta, non le imbottisce di zucchero pur utilizzando parole assolutamente comuni ed è semplicemente quanto di meglio offra il pop, e non da oggi, in Italia.
Musicista eclettico e riservato, produttore, arrangiatore, lo ricordiamo (credo) tutti per la sua presenza nella storica "Quelli che benpensano" di Frankie Hi-Nrg. Ne è passato di tempo, da allora (era il 1997) e Sinigallia ha pubblicato quattro dischi a suo nome, conquistandosi un rispetto ampiamente meritato da critica e colleghi, perché il suo talento è cristallino, solare, direi naturale. A questo non corrisponde un successo parimenti ampio, perché probabilmente i suoi pezzi sono troppo delicati (senza essere ombelicali e narcisisti come tanto indie da cameretta), troppo a mezza voce per avere un successo di massa; o forse perché lui, pur avendo scritto pezzi come "La descrizione di un attimo", che sono oramai patrimonio nazionale, ed incidendo per la Sugar di Caterina Caselli, è portatore sano di una sensibilità che non è per tutti, a dispetto del titolo del suo penultimo disco (Per tutti, appunto); una sottile malinconia che si ferma sempre un passo prima della didascalia e viene veicolata da pezzi che restano perfettamente a mezz'aria, densissimi, eppure apparentemente fatti solo d'aria, proprio come le parole sono appoggiate su strutture semplici eppure articolate e groove calibrati al millimetro.
Un funk (più come attitudine che come suono puro) disciolto nella più bella acqua pop e polverizzato in arrangiamenti nitidi che creano una nebulosa di suono avvolgente, con un mood che fa pensare a volte ai Massive Attack, altre volte a un Lucio Dalla più umbratile, altre volte a un mondo ideale dove una canzone nel 2019 non è una cosa sciocca e di poco valore, ma un manufatto costruito con cura e sapienza artigianale. Accompagnata da riflessioni acute ("Le donne di destra"), con un gusto che ci riporta in un certo spleen così tipico degli anni Ottanta – a me vengono in mente i Bronski Beat di "Smalltown Boy", chissà ("Dudù", il secondo singolo da Ciao Cuore, il disco uscito l'anno scorso) –, oppure tentando una riuscitissima ipotesi di soul italiano in HD ("Bella quando vuoi").
Sono i dettagli, a fare la differenza: un crescendo di chitarra ritmica (Francesco Valente), una fioritura di synth, un kazoo, le virgole del basso di Laura Arzilli, sempre intelligentemente un passo indietro, una ottima capacità di dosare spazi, e volumi (la batteria di Ivo Parlati), per lasciare che le canzoni prendano respiro e trasmettendo questa sensazione diffusa di calore, di spazio.
Sono miniature finemente cesellate che si lasciano osservare tante volte, proprio per il prezioso lavoro di arrangiamento, senza mai stancare, ma rivelando ogni volta un angolo, una profondità nuova. Dagli abissi accoglienti di “Se potessi incontrarti ancora” a perfetti prototipi appena corrosi da uno spleen che sa di Blade Runner ambientato in una stanza a Roma, a nebbie metaforiche in cui è bello naufragare.
Il concerto, nel raccolto scenario del settecentesco teatro Bibiena di Sant'Agata Bolognese, al confine tra le province di Modena e Bologna, ha inaugurato il programma Suoni della stagione, proponendoci un inventario di possibilità nella canzone, tra code (post)rock e incontri a metà strada (titolo del secondo disco di Sinigaglia, del 2006), tra autorialità e sensibilità ambient.
Lungo la via raccogliamo anche una cover della splendida "Malamore" di Enzo Carella, citazioni del Köln Concert al piano di Andrea Pesce in “E invece io” e richiami a una gioventù in discoteca (una chiara citazione di "I Love to Love" della diva disco Tina Charles, nella versione remix che spopolava nel 1993). Ma a emergere con delicata prepotenza alla fine sono la sensibilità imprendibile e il dono naturale per la difficile arte della canzone che fluisce in ogni rivolo di una serata memorabile.
«Forse è colpa nostra. Forse abbiamo esagerato, noi della musica leggera. Abbiamo imbottito le nostre canzoni di "ti amo". Ne abbiamo abusato e il senso reale si è un po' perso. Magari uno, pur amando disperatamente, non ha voglia di pronunciare quelle due parole stregate col timore di suonare un po' finto, un po' fumettistico. Comunque non sono le parole, ma i fatti che contano. Io ci ho messo una vita a imparare a non ascoltare con le orecchie, ma col cervello, col cuore».
Mina
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