Retrogusto amaro
diario del 17 luglio
Recensione
jazz
Ci vorrebbe una Guida Michelin dedicata alla pecora in cappotto. Una guida esclusivamente sarda intendo. Una per la pecora in cappotto e una per il porcetto arrosto. Una guida di mille pagine perché la mappatura non è dei luoghi ma delle persone.
“Sos coghineris” della Sardegna sono cuochi sopraffini a tempo perso. Pastori di giorno e Gualtiero Marchesi di sera. Raffinati come un Veronelli ma saggi di memoria mediterranea dove l’intreccio dei sapori tra mirti, cipolle e patate, ne fanno i nuovi Artusi della contemporaneità.
Tottoi, Fabio, Gesuino e Angelo sono i cuochi di Gonone. Non ti passano il conto alla fine della cena e se arriva un ospite inatteso ti chiedono giusto di stringerti a tavola perché nella promiscuità con il vicino di posto la pecora e il porcetto si mangiano più volentieri.
La regina è la pecora. A volte dura e a volte delicata come una vitella massaggiata del Giappone e allevata a birra. Il re è il porcetto arrosto che quando assaggi la cotenna ti si scioglie in bocca anche il trambusto della vita e lasci alle spalle bollette non pagate e dissapori col mondo.
A Gonone guardi il mare e mangi la carne perché sei in Barbagia e te lo ricordano i monti bianchi che al mare preludono.
La cena che ci hanno preparato non è solo a base di pecora bollita e di porcetto arrosto accompagnato da pinzimonio e poi da formaggio pecorino dolce e stagionato. Alla fine di tutto la sorpresa è stata una torta con tanto di logo di “!50” e trombetta stilizzata offerta dal sindaco di Dorgali Angelo Carta che mi ha donato anche un’opera d’arte in ceramica fatta dall’artigiano dorgalese Lorenzo Loi.
Nell’insegna del suo laboratorio c’è scritto “Loi Lorenzo Loi” e i dorgalesi per scherzo lo chiamano “Compare Larentu Compare”, che Larentu in limba significa Lorenzo.
Perché Dorgali è il paese dei dolci e dell’artigianato. Non solo ceramiche ma anche filigrane in oro e argento, manufatti in pelle, scialli finemente lavorati e tappeti esclusivi in quanto fatti con il ‘nodo orientale’ che è tipico del luogo. E poi pane pistoccu e miele, mandorle, i vini della Cantina Sociale nata nel ‘53 con l’ammiraglio che è il Cannonau e con altri vini importanti tra cui il “Filieri” che è un rosato vincitore di diversi premi nazionali. Dorgali è Barbagia, più precisamente la Barbagia di Ollolai anche se sembra di essere in Baronia come per Orosei ma invece no e parlano diverso dai baroniesi amici miei che sono quelli del coro e che sono buffi perché la melodia delle parole va verso l’alto e sembra che vengano da Venezia. Quando a Dorgali ci arrivi da Nuoro ti si apre alla vista il fiume Cedrino che nasce a 1300 metri, sopra Orgosolo, e che scende al mare a Orosei. Ti sembra di non essere in un luogo di mare e se pensi che a qualche ora di cammino ti trovi nella grotta di Tiscali dove c’è uno che ti chiede 5 euro per entrare dopo che non hai visto anima viva per ore e solo querce, rocce e ginepri tu non ci credi ma sai anche che sei in un’isola e che l’isola è così e giri-giri e trovi tutto quello che hai lasciato alle spalle mare compreso, montagne e un tipo che ti chiede 5 euro a Tiscali che non sai se lui abita lì o se ci va tutti i giorni la mattina presto.
Il concerto con i “Devil” lo teniamo in spiaggia su una pedana di legno pittata di giallo vivo. All’origine era previsto a Villa Ticca ma non ci stavamo e la spiaggia si dimostra il luogo più adatto. Nel pomeriggio il mare è grosso ma il mio amico skipper Gaetano Mura dice che il mare scenderà e sarà effettivamente così. Le prove del suono le facciamo con i bagnanti in costume che ci osservano curiosi. La sera la gente si accalca seduta per terra sulla sabbia e sui balconi dei terrazzini in pietra che degradano verso il mare. Anche stasera sono tanti. Con Bebo, Paolino e Stefano attacchiamo con “Giovedì” che è una ballata e suoniamo con la risacca del mare. Poi “Another Road to Timbuctu”, “Mimì”, “Game #7” unita a “Elogio del Discount”. Poi le due ninne nanne per il mio piccolo Andrea e “Moto perpetuo” per chiudere il set ma non prima di avere raccontato la buffa storia della Stanley Music che dà il titolo al nostro ultimo cd e che è nata in Nuova Caledonia qualche anno fa. Come bis una versione di “Satisfaction” dei Rolling Stones in 7/4 e poi tutti in spiaggia e noi a casa di Gaetano Mura per un ultimo bicchiere prima di partire per Oristano che non è proprio dietro l’angolo. Gaetano è un fiume in piena. Anzi un mare in tempesta. Racconta del suo mare, delle sue traversate in solitudine, del Transat poco più di un anno fa quando ha impiegato 31 giorni per andare da La Rochelle in Francia a Salvador de Bahia mangiando solo cibi liofilizzati preparati dalla moglie e ascoltando anche la mia musica oltre ai suoni dell’oceano. Ora prepara la circumnavigazione del mondo in solitudine e sta costruendo una barca di poco meno di sei metri in un cantiere di Rimini che sarà in parte finanziata dalla vendita di un seggiolino portatile e all’occorrenza porta-computer che lui stesso ha disegnato e che si chiama “Gironelmondo” tutto attaccato. Gaetano è un fiume in piena perché racconta di avere imparato tutto da solo in un posto di terra come Dorgali che è a pochi minuti dal mare e perché prova a raccontare cosa significa essere da soli in mezzo agli oceani per giorni e mesi senza un contatto con il mondo. Racconta con gli occhi prima che con le parole e questi sono ancora più luminosi, seppure neri, perché si emoziona prima di noi che stiamo lì ad ascoltarlo nella sua bella casa da dove vedi solo il mare e una luna enorme che si specchia sull’acqua. Gaetano ha un sogno, quello di costruire un’enorme balena di plastica da mettere in un museo o in una piazza. Balena fatta di plastica recuperata e incrostata di conchiglie, attaccata dal sale e colpita e sbattuta sugli scogli. Il suo sogno è fare la traversata oceanica della plastica, come scrive nel suo blog. Riempire la barca di questi mostri petrolchimici e poi catalogarli e scaricarli a terra per costruire la grande balena di plastica per dare un segnale a chi è a terra e invitare tutti a usare i cassonetti per il riciclo della plastica che altrimenti finisce nei fiumi e nel mare. Gli chiedo qual è l’oggetto più bizzarro che ha incontrato con la sua barca negli oceani. “Un biliardino” mi risponde con un mezzo sorriso.
A Gonone ci arriviamo sotto il sole del primo pomeriggio. Ci arriviamo con Roberto Perisi che guida la nostra macchina e con il fotografo Gianfranco Mura transitando per Nuoro provenienti da Macomer perché veniamo da Sassari dove ho tenuto un concerto nella rotonda del Carcere di San Sebastiano assieme al pianista Mariano Tedde che suona con il Woodstore Quintet con il quale abbiamo registrato un Cd. Saranno due, in seno a “!50”, i concerti nelle carceri perché dopo quello di Sassari ci sarà anche l’altro nel Carcere minorile di Quartucciu vicino a Cagliari. Stavolta in duo con Bebo Ferra. La direttrice Dottoressa Mascolo ci accoglie personalmente all’ingresso e sembra essere molto contenta di riceverci. Ci sono anche le educatrici e parte del personale di vigilanza assieme alle dirigenze. Nel carcere di San Sebastiano si entra da Via Roma che è a due passi da Piazza D’Italia e fa un certo effetto sapere che c’è una prigione in pieno centro della città e che i detenuti ne sentono i suoni e gli odori. Diverso è per la Casa Circondariale di Badu ’e Carros dove ormai sono di casa da alcuni anni. Perché è costruita nella periferia di Nuoro e per entrarci ci devi andare apposta e non so se sia meglio o peggio la lontananza geografica oltre che fisica e mentale. Entrare a San Sebastiano ti dà l’idea del vero carcere di reclusione. Non tanto per la quantità di porte blindate per arrivare alla “rotonda” da dove si diramano i bracci con le celle ma perché il carcere è vecchio e si vede visto che è stato progettato a cavallo dell’Unità d’Italia ed inaugurato nel 1871. Se allora era un gioiello di edilizia carceraria oggi è un rudere inadatto e obsoleto nonostante sia la Direttrice Mascolo che il personale di custodia svolgano un lavoro lodevole al suo interno. E’ di ieri la notizia su tutti i giornali dell’arresto di una guardia carceraria per l’omicidio di un detenuto di qualche anno fa e sono tutti visibilmente scossi.
Il nostro concerto di stamattina acquista ancora di più un senso. Per i detenuti e anche per il personale che comunque in carcere ci vive e ne vive le difficoltà e le contraddizioni. In questo momento i detenuti, tra uomini e donne, sono circa 180 e quasi tutti hanno deciso di seguire il concerto. La maggior parte sono giovani tra i diciotto e i trent’anni con una buona percentuale di extracomunitari e in particolare di maghrebini che stamattina sono attentissimi, specialmente le donne che tutto sembrano meno che carcerate. Vorrei dire loro che se suono il jazz è perché c’è un’Africa che respira ma poi penso che non sia il caso o che sarebbe scontato e questa mattina le parole sono veramente poche perché lì non servono. All’inizio c’è un brusio di fondo ma quando attacco “No potho reposare” accompagnato dal pianoforte di Mariano Tedde nella “rotonda” si fa silenzio. Al terzo pezzo che è un blues accompagno battendo a tempo con l’anello sulla campana del flicorno e alcuni iniziano a battere le mani sempre a tempo. Alcuni diventano i detenuti, i secondini, la Direttrice e le suore. Perché ci sono anche due suore vestite di bianco e anche loro sono visibilmente contente come il cappellano. Una dedica al gentil sesso con “My funny Valentine”, poi un brano originale di Mariano, “Estate” di Bruno Martino e un Blues in Bb per finire con me che vado in mezzo alla “rotonda” per una nota lunghissima con la respirazione circolare.
Molti detenuti sono nella parte alta dove ci sono le inferriate che circondano la “rotonda” e questi guardano dall’altro e salutano chiedendo un bis. Mariano non sta in piedi da quando è agitato. Confessa che per lui è la prima volta in un carcere e che è contento di avere fatto questa bella esperienza che è forte. Musicalmente e umanamente. Gli dico che io ormai ci sono abituato ma mento perché ogni volta è uno schiaffo in faccia e nella “rotonda” di San Sebastiano a Sassari lo è ancora di più. La Direttrice chiede di fare una dedica ai detenuti su un foglio bianco. La autografiamo e poi ne facciamo delle altre per il personale del carcere e per il barista che ci serve il caffè vestito da guardia e chiede se voglio un’acqua semplice o gassata come fosse un vero barista. Si apre la porta su Via Roma e il cielo è blu terso e nel ‘vero’ Bar sulla via ci sono i sassaresi di sempre. Giovani con l’orecchino, signore eleganti e signori borghesi con bastone, camicia inamidata e Borsalino bianco.
L’Aperol soda ben ghiacciato questa mattina ha un altro sapore che è un retrogusto amaro. Ci mettiamo in macchina e imbocchiamo la Carlo Felice. A Macomer giriamo a sinistra per Nuoro. Prima di immetterci sulla nuova 131 in direzione di Siniscola ci fermiamo verso Oniferi nel Bar “S’Infurcau” che sembra di essere in un altro secolo o in un libro di Ernesto De Martino. Un bancone sulla destra con sette giovani pastori in pantaloni di velluto e molte Ichnusa, una innumerevole fila di sedie bianche in plastica vuote con pochi tavolini al centro, un miriade di Cd e cassette di Tenores e suonatori di organetto sulla sinistra. Un giovane ragazzo sta dietro il bancone e gli chiedo se mi prepara un panino con la mortadella. Non fa una piega, dice di sì con la testa e sparisce dietro la tenda fino a quando non viene il proprietario di poco più grande ma con la postura dei sette pastori in velluto. “Non c’è pane” ci dice. “Però da bere già ce n’è” aggiunge mentre il giovane ragazzo mi guarda come se niente fosse. Della serie “lo sapevo che di pane non ce n’era ma perché dovevo dirtelo?”. Un libro di De Martino, ma potrebbe essere anche di Ugo Mulas o Pablo Volta. Dietro l’unica finestra, a “S’Infurcau”, pile di “prance” di sughero, una vecchia vasca da bagno arrugginita come abbeveratoio per qualche mucca e basta. Della serie “benvenuti in Barbagia”. Cartolina da Orotelli.
Ci rimettiamo in macchina ignari che questa sera mangeremo pecora in cappotto e porcetto arrosto con pinzimonio. “Unu pezzu ‘e casu?” chiede Tottoi allo skipper Gaetano Mura. “A preferenzia un’ateru pezzu ‘e petza”. “Preferirei un altro pezzo di carne” gli risponde Gaetano con i suoi modi da uomo di terra e con il viso bruciato dal sole e dal vento degli oceani.
Perché Dorgali è il paese dei dolci e dell’artigianato. Non solo ceramiche ma anche filigrane in oro e argento, manufatti in pelle, scialli finemente lavorati e tappeti esclusivi in quanto fatti con il ‘nodo orientale’ che è tipico del luogo. E poi pane pistoccu e miele, mandorle, i vini della Cantina Sociale nata nel ‘53 con l’ammiraglio che è il Cannonau e con altri vini importanti tra cui il “Filieri” che è un rosato vincitore di diversi premi nazionali. Dorgali è Barbagia, più precisamente la Barbagia di Ollolai anche se sembra di essere in Baronia come per Orosei ma invece no e parlano diverso dai baroniesi amici miei che sono quelli del coro e che sono buffi perché la melodia delle parole va verso l’alto e sembra che vengano da Venezia. Quando a Dorgali ci arrivi da Nuoro ti si apre alla vista il fiume Cedrino che nasce a 1300 metri, sopra Orgosolo, e che scende al mare a Orosei. Ti sembra di non essere in un luogo di mare e se pensi che a qualche ora di cammino ti trovi nella grotta di Tiscali dove c’è uno che ti chiede 5 euro per entrare dopo che non hai visto anima viva per ore e solo querce, rocce e ginepri tu non ci credi ma sai anche che sei in un’isola e che l’isola è così e giri-giri e trovi tutto quello che hai lasciato alle spalle mare compreso, montagne e un tipo che ti chiede 5 euro a Tiscali che non sai se lui abita lì o se ci va tutti i giorni la mattina presto.
Il concerto con i “Devil” lo teniamo in spiaggia su una pedana di legno pittata di giallo vivo. All’origine era previsto a Villa Ticca ma non ci stavamo e la spiaggia si dimostra il luogo più adatto. Nel pomeriggio il mare è grosso ma il mio amico skipper Gaetano Mura dice che il mare scenderà e sarà effettivamente così. Le prove del suono le facciamo con i bagnanti in costume che ci osservano curiosi. La sera la gente si accalca seduta per terra sulla sabbia e sui balconi dei terrazzini in pietra che degradano verso il mare. Anche stasera sono tanti. Con Bebo, Paolino e Stefano attacchiamo con “Giovedì” che è una ballata e suoniamo con la risacca del mare. Poi “Another Road to Timbuctu”, “Mimì”, “Game #7” unita a “Elogio del Discount”. Poi le due ninne nanne per il mio piccolo Andrea e “Moto perpetuo” per chiudere il set ma non prima di avere raccontato la buffa storia della Stanley Music che dà il titolo al nostro ultimo cd e che è nata in Nuova Caledonia qualche anno fa. Come bis una versione di “Satisfaction” dei Rolling Stones in 7/4 e poi tutti in spiaggia e noi a casa di Gaetano Mura per un ultimo bicchiere prima di partire per Oristano che non è proprio dietro l’angolo. Gaetano è un fiume in piena. Anzi un mare in tempesta. Racconta del suo mare, delle sue traversate in solitudine, del Transat poco più di un anno fa quando ha impiegato 31 giorni per andare da La Rochelle in Francia a Salvador de Bahia mangiando solo cibi liofilizzati preparati dalla moglie e ascoltando anche la mia musica oltre ai suoni dell’oceano. Ora prepara la circumnavigazione del mondo in solitudine e sta costruendo una barca di poco meno di sei metri in un cantiere di Rimini che sarà in parte finanziata dalla vendita di un seggiolino portatile e all’occorrenza porta-computer che lui stesso ha disegnato e che si chiama “Gironelmondo” tutto attaccato. Gaetano è un fiume in piena perché racconta di avere imparato tutto da solo in un posto di terra come Dorgali che è a pochi minuti dal mare e perché prova a raccontare cosa significa essere da soli in mezzo agli oceani per giorni e mesi senza un contatto con il mondo. Racconta con gli occhi prima che con le parole e questi sono ancora più luminosi, seppure neri, perché si emoziona prima di noi che stiamo lì ad ascoltarlo nella sua bella casa da dove vedi solo il mare e una luna enorme che si specchia sull’acqua. Gaetano ha un sogno, quello di costruire un’enorme balena di plastica da mettere in un museo o in una piazza. Balena fatta di plastica recuperata e incrostata di conchiglie, attaccata dal sale e colpita e sbattuta sugli scogli. Il suo sogno è fare la traversata oceanica della plastica, come scrive nel suo blog. Riempire la barca di questi mostri petrolchimici e poi catalogarli e scaricarli a terra per costruire la grande balena di plastica per dare un segnale a chi è a terra e invitare tutti a usare i cassonetti per il riciclo della plastica che altrimenti finisce nei fiumi e nel mare. Gli chiedo qual è l’oggetto più bizzarro che ha incontrato con la sua barca negli oceani. “Un biliardino” mi risponde con un mezzo sorriso.
A Gonone ci arriviamo sotto il sole del primo pomeriggio. Ci arriviamo con Roberto Perisi che guida la nostra macchina e con il fotografo Gianfranco Mura transitando per Nuoro provenienti da Macomer perché veniamo da Sassari dove ho tenuto un concerto nella rotonda del Carcere di San Sebastiano assieme al pianista Mariano Tedde che suona con il Woodstore Quintet con il quale abbiamo registrato un Cd. Saranno due, in seno a “!50”, i concerti nelle carceri perché dopo quello di Sassari ci sarà anche l’altro nel Carcere minorile di Quartucciu vicino a Cagliari. Stavolta in duo con Bebo Ferra. La direttrice Dottoressa Mascolo ci accoglie personalmente all’ingresso e sembra essere molto contenta di riceverci. Ci sono anche le educatrici e parte del personale di vigilanza assieme alle dirigenze. Nel carcere di San Sebastiano si entra da Via Roma che è a due passi da Piazza D’Italia e fa un certo effetto sapere che c’è una prigione in pieno centro della città e che i detenuti ne sentono i suoni e gli odori. Diverso è per la Casa Circondariale di Badu ’e Carros dove ormai sono di casa da alcuni anni. Perché è costruita nella periferia di Nuoro e per entrarci ci devi andare apposta e non so se sia meglio o peggio la lontananza geografica oltre che fisica e mentale. Entrare a San Sebastiano ti dà l’idea del vero carcere di reclusione. Non tanto per la quantità di porte blindate per arrivare alla “rotonda” da dove si diramano i bracci con le celle ma perché il carcere è vecchio e si vede visto che è stato progettato a cavallo dell’Unità d’Italia ed inaugurato nel 1871. Se allora era un gioiello di edilizia carceraria oggi è un rudere inadatto e obsoleto nonostante sia la Direttrice Mascolo che il personale di custodia svolgano un lavoro lodevole al suo interno. E’ di ieri la notizia su tutti i giornali dell’arresto di una guardia carceraria per l’omicidio di un detenuto di qualche anno fa e sono tutti visibilmente scossi.
Il nostro concerto di stamattina acquista ancora di più un senso. Per i detenuti e anche per il personale che comunque in carcere ci vive e ne vive le difficoltà e le contraddizioni. In questo momento i detenuti, tra uomini e donne, sono circa 180 e quasi tutti hanno deciso di seguire il concerto. La maggior parte sono giovani tra i diciotto e i trent’anni con una buona percentuale di extracomunitari e in particolare di maghrebini che stamattina sono attentissimi, specialmente le donne che tutto sembrano meno che carcerate. Vorrei dire loro che se suono il jazz è perché c’è un’Africa che respira ma poi penso che non sia il caso o che sarebbe scontato e questa mattina le parole sono veramente poche perché lì non servono. All’inizio c’è un brusio di fondo ma quando attacco “No potho reposare” accompagnato dal pianoforte di Mariano Tedde nella “rotonda” si fa silenzio. Al terzo pezzo che è un blues accompagno battendo a tempo con l’anello sulla campana del flicorno e alcuni iniziano a battere le mani sempre a tempo. Alcuni diventano i detenuti, i secondini, la Direttrice e le suore. Perché ci sono anche due suore vestite di bianco e anche loro sono visibilmente contente come il cappellano. Una dedica al gentil sesso con “My funny Valentine”, poi un brano originale di Mariano, “Estate” di Bruno Martino e un Blues in Bb per finire con me che vado in mezzo alla “rotonda” per una nota lunghissima con la respirazione circolare.
Molti detenuti sono nella parte alta dove ci sono le inferriate che circondano la “rotonda” e questi guardano dall’altro e salutano chiedendo un bis. Mariano non sta in piedi da quando è agitato. Confessa che per lui è la prima volta in un carcere e che è contento di avere fatto questa bella esperienza che è forte. Musicalmente e umanamente. Gli dico che io ormai ci sono abituato ma mento perché ogni volta è uno schiaffo in faccia e nella “rotonda” di San Sebastiano a Sassari lo è ancora di più. La Direttrice chiede di fare una dedica ai detenuti su un foglio bianco. La autografiamo e poi ne facciamo delle altre per il personale del carcere e per il barista che ci serve il caffè vestito da guardia e chiede se voglio un’acqua semplice o gassata come fosse un vero barista. Si apre la porta su Via Roma e il cielo è blu terso e nel ‘vero’ Bar sulla via ci sono i sassaresi di sempre. Giovani con l’orecchino, signore eleganti e signori borghesi con bastone, camicia inamidata e Borsalino bianco.
L’Aperol soda ben ghiacciato questa mattina ha un altro sapore che è un retrogusto amaro. Ci mettiamo in macchina e imbocchiamo la Carlo Felice. A Macomer giriamo a sinistra per Nuoro. Prima di immetterci sulla nuova 131 in direzione di Siniscola ci fermiamo verso Oniferi nel Bar “S’Infurcau” che sembra di essere in un altro secolo o in un libro di Ernesto De Martino. Un bancone sulla destra con sette giovani pastori in pantaloni di velluto e molte Ichnusa, una innumerevole fila di sedie bianche in plastica vuote con pochi tavolini al centro, un miriade di Cd e cassette di Tenores e suonatori di organetto sulla sinistra. Un giovane ragazzo sta dietro il bancone e gli chiedo se mi prepara un panino con la mortadella. Non fa una piega, dice di sì con la testa e sparisce dietro la tenda fino a quando non viene il proprietario di poco più grande ma con la postura dei sette pastori in velluto. “Non c’è pane” ci dice. “Però da bere già ce n’è” aggiunge mentre il giovane ragazzo mi guarda come se niente fosse. Della serie “lo sapevo che di pane non ce n’era ma perché dovevo dirtelo?”. Un libro di De Martino, ma potrebbe essere anche di Ugo Mulas o Pablo Volta. Dietro l’unica finestra, a “S’Infurcau”, pile di “prance” di sughero, una vecchia vasca da bagno arrugginita come abbeveratoio per qualche mucca e basta. Della serie “benvenuti in Barbagia”. Cartolina da Orotelli.
Ci rimettiamo in macchina ignari che questa sera mangeremo pecora in cappotto e porcetto arrosto con pinzimonio. “Unu pezzu ‘e casu?” chiede Tottoi allo skipper Gaetano Mura. “A preferenzia un’ateru pezzu ‘e petza”. “Preferirei un altro pezzo di carne” gli risponde Gaetano con i suoi modi da uomo di terra e con il viso bruciato dal sole e dal vento degli oceani.
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