Red Wine, una festa bluegrass
La Red Wine di Genova celebra il Distinguished Achievement Award, la prima volta per un gruppo europeo
Un fatto interessante e curioso assieme nelle musiche afroamericane è che la maggior parte di esse viene concepito come una sorta di orizzonte estetico chiuso: il “vero blues”, il “vero jazz”, e via citando.
Le spinte convergenti della mitografie “popular” e l'occhio attento di chi gestisce il mercato inventano ideali di purezza esistenzialistica che non è mai esistita. Vero è, invece, che ogni musica popular scaturita dal colossale rimescolamento di carte estetiche della seconda metà del Novecento nasce spuria e felicemente bastarda: un mazzo di possibilità declinate nelle maniere più impensabili, mai un corpus rigido e blindato.
Ne volte una riprova? Andate alla voce “bluegrass”. Ritenuto uno dei “generi” più blindati e “puri” nel mare magnum di quelle note nate da mediazioni faticose o improvvise, comunque inevitabili. Melodia gaelica, lacerti di blues, schegge di swing e hillbilly music, profumi di gospel, e tanto altro.
È successo che la Red Wine, gruppo potente e duttile al contempo, nato in quel di Genova quasi mezzo secolo fa, non certo in Kentucky o North Carolina, si sia ora aggiudicata il Distinguished Achievement Award, il premio alla carriera che viene assegnato dalla International Bluegrass Music Association negli Stati Uniti a chi, suonando il bluegrass con maestria, ne ha favorito “immagine, diffusione e sensibilità”.
Cosa c’è di particolare? che il Premio ben di rado sia stato assegnato a musicisti non americani. Mai a un gruppo europeo. Mai a realtà italiane.
Per questo Red Wine ha deciso di intitolare il sua cadenzata festa annuale “The Award Party”. Un riconoscimento che ci spiega quanto la sporazione di certe note prescinda dalle appartenenze geografiche e dalle velleità “identitarie”, anche e soprattutto perché Red Wine, da un approccio iniziale lontanissimo assai “filologico” ha declinato poi nei decenni una curiosità a tutto campo, assorbendo nel mondo delle corde veloci e up tempo una quantità di musiche impressionante. Una questione di stile, nel senso totale del termine.
Ecco allora che Martino Coppo con i suoi mandolini funambolici – compreso il potente octave mandoline, quasi un “mandolone” –, Silvio Ferretti signore del banjo e occasionalmente chitarrista, il figlio Marco chitarrista flatpicker ormai dirompente, ma anche banjoista, quasi un rovescio strumentale del padre, Lucas Belotti al basso, e il sempre presente quinto membro aggiunto Davide “Zazza” Zalaffi alla batteria hanno scelto, per The Award Party, di rintracciare molti fili dispersi di grandi autori che hanno segnato la loro lunga carriera.
Con un fatto che sbalza fuori immediato: i nove decimi non sono musicisti di bluegrass. Perché (quasi) tutto si può bluegrassizzare, ma il bello è farlo partendo da brani che hanno già dalla loro una dirimente consistenza. Si parte con "You're Gonna Make Me Lonesome When You Go", dal carniere più pregiato di Bob Dylan, si transita per "American Girl" di Tom Petty, grande e sfortunato, e per "Woodstock", il memorabile inno di Joni Mitchell a una generazione che aveva grandi sogni; poi "For No One" dei Beatles, il "Cielo d'Irlanda" di Bubola, e cose di John Hartford, di John Fogerty, di David Grisman.
Una cavalcata sorridente, sapiente e intensa, catalizzata dalla presenza magnetica di due grandi e navigati ospiti: Roberto Bongianino a fisarmonica e tastiere, e quel folletto dalla cavata aspra e guizzante assieme sul violino che è Anchise Bolchi.
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