Primavera Sound 3 | Dal tramonto all'alba

Ultimo giorno al festival spagnolo: c'è Nick Cave

Recensione
pop
Alla fine la pioggia, prevista, non è arrivata. In compenso, tutte le fan nordiche sgambate in shorts e infradito, dopo il primo giorno, hanno saggiamente optato per un look più castigato. Gli indigeni, fattisi furbi, hanno anche tirato fuori giubbotti di pelo e giacche a vento; noi, con il solo bagaglio a mano, ci siamo vestiti a strati - con risultati spesso grotteschi: troppe foto lo documentano, purtroppo per noi.

Quest'edizione del Primavera Sound di Barcellona sarà ricordata come quella delle troppe reunion di colossi indie (davvero troppe, a scapito della nuova musica), e per il freddo. La poca primavera del Primavera tocca il suo punto peggiore al tramonto e all'alba, quando il vento soffia dal mare e si infila dappertutto. La giornata di sabato non fa eccezione, e anche per questo le occasioni di entrare all’Auditorium sono particolarmente apprezzate: poco prima del calar del sole, ad esempio, Apparat presenta lì il suo nuovo Krieg und Frieden. L’album segna un'altra tappa della sua deriva da un'elettronica "suonata" ad una sorta di "falsa elettronica", in cui suoni digitali si mescolano con archi, strumenti elettrici e percussioni: l’ora di performance vola via in un attimo, fra cupi droni e liriche aperture di violino e violoncelli. Quando esce dai limiti imposti dalla forma-canzone il musicista tedesco riesce a essere molto più convincente, meno melanconico-lamentoso e radicalmente più inventivo. Belli anche i visual, coerentemente "analogici", fatti con soli giochi di luce, piccoli oggetti (corde, nastri, carta...) e un paio di videocamere.

La giornata procede un po' mollemente, anche per qualche annullamento (Band of Horses, all'ultimo, e Rodriguez, già annunciato nelle settimane precedenti). Si ha tempo quindi per ascoltare con calma i Dead Can Dance - in stato di grazia - e un pezzetto dei Wu-Tang Clan prima dell’atteso show di Nick Cave.
Poco da dire, su di lui: band esemplare, concerto esemplare, curiosamente troppo corto (appena un'ora) e senza bis - essendo il nome di maggior richiamo, insieme ai Blur, ci si aspettava qualcosa di più. La scaletta pesca generosamente dall'ultimo Push the Sky Away, soprattutto nei brani più lenti e intimisti, con gli spazi fra l'uno e l'altro riempiti con qualche grande classico: "Tupelo", "From Her to Eternity", "The Weeping Song", "Red Right Hand", "The Mercy Seat" e una sinuosa e lunghissima "Stagger Lee" che finisce (anzi, che non finisce mai!) con Cave in piedi sulle prime file del pubblico. Nella sua – purtroppo – eccessiva sintesi, uno dei momenti migliori del festival.

Complice il concerto-lampo di Cave, e la distanza dell'altro capo del Parc del Fòrum fattasi ancora più chilometrica dopo tre giorni di festival, rimane oltre un'ora prima dei My Bloody Valentine: è l'occasione per testare Phosphorescent, moniker del cantautore Matthew Houck, che dal vivo punta su suoni di organo e synth vintage e ci fa passare tre quarti d’ora piacevoli.
I My Bloody Valentine, tanto attesi, ricambiano solo in parte le aspettative. La variabile volume, soprattutto, non si dovrebbe mai sottovalutare con certi generi di musica: le chitarre di Kevin Shields suonano veramente, in tutti i loro innumerevoli colori, solo dal vivo, ma l’impatto generale rimane un po’ moscio se non si alza il cursore dei decibel verso l'alto. L’impressione a dire il vero riguarda buona parte dei concerti sul palco principale (l’Heineken), curiosamente costruito fianco a fianco con il più piccolo ATP, con ovvi problemi di reciproco inquinamento sonoro. C'è ancora tempo per qualche secondo di Omar Souleyman – che qui e là era già, appunto, affiorato durante la performance dei My Bloody Valentine (senza far bene né a sé né a loro), per i ballatissimi Hot Chip e per un misterioso gruppo locale, The Suicide of Western Culture, la cui musica - ragionevolmente - non può credibilmente manifestarsi prima delle quattro del mattino, e ad un volume più che smodato: hardcore elettronico, distorto e velocissimo, un po’ alla Fuck Buttons. Quello che ci vuole per tenersi svegli mentre intorno albeggia, in attesa di andare all'aeroporto.

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