Premio Parodi, presente e futuro
Il racconto dell'edizione 2016, fra profezie e certezze
Descriviamo spesso il futuro della musica come una puntata di The Walking Dead, in cui pochi sopravvissuti si aggirano in una terra ostile armati di machete e mazze da baseball, facendo fuori quel che resta del vecchio mondo (in forma di zombie putrescenti) e ammazzandosi selvaggiamente fra loro. (O forse è già il presente?).
Come dopo sette stagioni di ammazzamenti, in realtà, la formula comincia a essere piuttosto logora. Lo stesso vale per i discorsi sulla musica, se si considera come paure millenaristiche sulla fine di * [a scelta, a seconda del momento storico: la musica dal vivo, il disco, l’audiocassetta, la sinfonia, il cilindro di cera] si ripetano ciclicamente da quando se ne può avere traccia.
È insomma ora di inventare un nuovo modo di immaginare il futuro della musica: da qui si è partiti per la seconda edizione del convegno internazionale organizzato dal Premio Andrea Parodi di Cagliari, dedicato all’immaginare la world music fra vent’anni. Il discorso su come sarà il futuro della musica del mondo è particolarmente interessante per diversi motivi, in un momento storico in cui assistiamo a spostamenti di grandi masse di persone, associate a una crescente disponibilità di accesso a informazioni, dati e soprattutto suoni da ogni parte del globo. In un recente libro, Jace Clayton (alias DJ Rupture) ha definito “World music 2.0” il complesso e vario bricolage che in molte parti del pianeta sta producendo musica davvero nuova, per come nasce, è fruita e per gli scopi che si prefigge…
È affascinante che – contro molti pronostici – la partecipatissima tavola rotonda del convegno abbia, nell’immaginare quello che sarà, rinunciato (quasi) esclusivamente ai terrori millenaristici: fra gli intervenuti c’erano Ciro De Rosa (Blogfoolk), Marco Lutzu e Ignazio Macchiarella (etnomusicologi dell’Università di Cagliari), Dario Zigiotto (operatore culturale), Riccardo Tesi (musicista) e Thorsten Bednarz (Deutschlandradio Kultur), con il coordinamento di chi scrive. Le profezie sono state molte: l’orizzonte di riferimento era il 2037, anno che segnerà il cinquantesimo anniversario dell’introduzione dell’etichetta world music sul mercato, e il trentennale del Premio Parodi. Nuovi generi sono stati immaginati (il combat tango, la tamarrata nera, il fado chaabi, la pizzica pizzica pizzica…), si sono pronosticati revival di strumenti oggi poco suonati (su tumbarinu sardo) e di medium musicali desueti (lo Stereo 8); si è proposto un futuro senza critici musicali (ma non è necessariamente una distopia) e pensate nuove funzioni per la musica… Si è parlato di marketing e della necessità “sentimentale” di recuperare un certo tipo di rapporto con il fare musica.
Qual è dunque il futuro della world music? Musica di nicchia per pochi ascoltatori colti o nuova popular music per grandi masse di persone? Raccolte le profezie, non vediamo l’ora di vedere che cosa succederà.
Nell’attesa, è per fortuna parso evidente a tutti come il Premio Parodi fosse il luogo e il momento giusto per tentare questo genere di esercizi di fantamusicologia: non c’è, oggi, una posizione migliore da cui contemplare il presente della world music, almeno in Italia. Qui, e da qui, si costruirà molto probabilmente il suo futuro.
Se il futuro è incerto, il presente sembra più roseo di quanto siamo disposti ad ammettere, almeno da un punto di vista artistico. L’edizione 2016 del Premio – a dieci anni esatti dalla morte di Andrea Parodi – ha visto un netto miglioramento del livello medio delle proposte, con alcune punte di vera eccellenza. La partecipazione in gara dei Mau Mau (che dunque hanno inviato il loro brano al vaglio della commissione, come oltre 200 musicisti hanno fatto) ha alla vigilia stupito qualcuno. In effetti – e il loro live al Premio lo ha dimostrato – non sarebbe stato strano averli come ospiti.
Tuttavia, la presenza di Morino & co. va a merito sia dei Mau Mau che del Premio stesso. I primi si sono messi in gioco fra artisti meno affermati di loro, spesso a inizio carriera, mostrando carisma e mestiere, e aggiudicandosi il premio come miglior testo per “8000 km” (ex aequo con Claudia Crabuzza) e il premio della critica (ex aequo con Domo Emigrantes), oltre a una menzione della Fondazione per la migliore cover di Andrea Parodi fra quelle presentate – una liberissima versione piemontese di “Balai”, ben riuscita. Il Premio, dal canto suo, ha dimostrato che può attrarre anche nomi affermati: un passaggio importante nel percorso di crescita della Fondazione Parodi e dei suoi progetti. È bene inoltre non dimenticare che, Mau Mau a parte, fra i dieci finalisti c’erano diversi nomi noti del circuito, da tempo sulla scena magari con altre formazioni: Claudia Crabuzza – anche Premio Tenco 2016 – con Chichimeca, Antonio Fraioli di Vesevo con Spaccanapoli, e altri ancora.
La vittoria finale è andata ai Pupi di Surfaro, con grande convergenza di voti e consensi. Il trio siciliano è comparso sul palco alla fine della prima serata spettinando le prime file con l’irresistibile “Li me’ paroli”. Il brano è una sorta di cuntu-invettiva lanciato da un frammento di Buttitta, che in breve diventa un pezzo di Big Beat anni Novanta cantato in siciliano. Per quanto si definiscano “Nu Combat Folk”, la proposta dei Pupi ha (per fortuna) aggiornato il paradigma barricadero. Anche il rimando al sound anni Nineties è più raffinato di quanto possa sembrare al primo ascolto, compresa la citazione diretta di una classica hit “da autoscontro” di quel decennio (“Think About The Way” di Ice Mc), e altri rimandi in direzione dance. Il nuovo combat folk sarà più Scatman John e Prodigy, e meno Modena City Ramblers: finalmente una buona notizia.
Alcuni hanno obiettato che l’elemento “world” nei Pupi sarebbe limitato (come per altri musicisti in gara) al solo elemento linguistico – ovvero al testo in siciliano. In realtà l’operazione del gruppo è più complessa di così, se accettiamo l’idea di una “world music 2.0” che superi il semplice rimando a una tradizione sempre più inesistente o inventata, e si nutra di ascolti popular “reali”. Del resto – considerazione banale – alle giostre in Sicilia negli anni Novanta è piuttosto improbabile trasmettessero solo vinili di Rosa Balistreri…
Il premio della critica è andato – ex aequo – ai Mau Mau (di cui si è detto) e ai Domo Emigrantes, giovane formazione di pugliesi e siciliani trapiantati nella provincia lombarda, che si è aggiudicata anche i riconoscimenti per la migliore musica e il migliore arrangiamento. Il decennio di riferimento dei Domo Emigrantes è piuttosto quello dei Settanta, con cambi di tempo prog e incastri elaborati di strumenti (dalle parti del primissimo Pagani “mediterraneo”, per intenderci), ma – a dispetto della complessità – i brani scorrono molto bene, e l’esperienza dal vivo ripaga con una splendida pasta d’insieme.
Discorso simile si può fare per i calabresi Parafoné, che ricevono il premio assegnato dalla giuria internazionale: la “musica mediterranea” è un modello ancora ben vivo per molti gruppi di trentenni – che molto spesso hanno quei dischi e quei musicisti come modello principale, anche per orchestrare insieme le diverse influenze dall’altra sponda del mare e i diversi strumenti (fiati, bouzouki, percussioni…). I Parafoné possono vantare dalla loro una profonda frequentazione sia di quei repertori, sia della musica della Calabria. L’auspicio è che il Parodi gli permetta di trovare altri palchi per il loro progetto, uscendo da una scena regionale ricca ma – fino a oggi – poco visibile oltre la punta dello Stivale.
Di alto livello, comunque, tutte le proposte. Claudia Crabuzza, nonostante qualche problema tecnico la prima sera, ha mostrato la sua qualità di interprete, oltre che di autrice, alle prese con “Pitzinnos in sa gherra” dei Tazenda. La scelta di organico – con la chitarra classica, la batteria, la tastiera e alcuni campioni elettronici molto presenti – probabilmente paga di più su disco, ma pochi dubbi sullo spessore del progetto.
I Vesevo erano in gara con un brano tradizionale (“O’ rre rre”), e sul palco dell’Auditorium di Cagliari il lavoro di arrangiamento e sul sound è risultato purtroppo un po’ sacrificato, e meno fresco (più "normale") di quanto non suoni sullo splendido lavoro d’esordio, uscito l’anno scorso per Agualoca.
Discorso in parte analogo vale per il trio tutto al femminile Lamorivostri: molto bello il brano in gara (intitolato semplicemente “Lamorivostri”), costruito su una strofa che si ripete come a spirale, sostenuta dalla chitarra e dall’ostinato della lira calabrese, e con l’organetto che lancia i crescendo.
Il progetto di Paolo Carrus e Manuela Mameli cerca di scrivere, sulla scia delle molte esperienze in quella direzione, una nuova pagina dei rapporti fra musica sarda e jazz: bella la voce della Mameli, intelligenti alcune scelte di arrangiamento. L’impressione è che l’organico “tradizionale” del piano trio più voce costringa a ricadere in alcune soluzioni e a gerarchie sugli strumenti che, se messe in discussione, potrebbero rendere il progetto molto più interessante e innovativo.
Infine, Il Tempo e la voce (Enrico Coppola e Giuseppe Di Bella), duo che ha costruito un raffinato ambiente musicale intorno ad alcuni testi poetici della scuola siciliana. Se dopo la prima serata c’era qualche dubbio (forse anche per una performance non perfetta), si è dissipato 24 ore dopo: non facile cantare così, di fronte a Elena Ledda e a un pubblico sardo, lo “Stabat” di Andrea Parodi.
Infine, gli ospiti: spesso scelti fra le frequentazioni artistiche di Elena Ledda, gli ospiti del Parodi contribuiscono all'incredibile clima familiare che emana il festival. Anche il ricordo di Andrea Parodi non è mai invasivo, scomodo, di cattivo gusto. Lo ha mostrato la toccante performance di Al Di Meola l'ultima sera, insieme a Peo Alfonsi: chiamato a ricordare il collega, con cui aveva diviso il palco per una registrazione ormai "mitica" (Midsummer Night in Sardinia, 2005) Di Meola ha dato prima di tutto una dimostrazione di umanità e di affetto sincero.
Una foto pubblicata da Al Di Meola (@official_aldimeola) in data: 17 Ott 2016 alle ore 02:12 PDT
E poi, Riccardo Tesi (che ha anche presentato la sua biografia artistica, firmata da Neri Pollastri) insieme a Massimo Donno, il Trio Correnteza con uno strepitoso Gabriele Mirabassi al clarinetto, la magnifica voce di Alessia Tondo... Tutto concorre a creare un senso di comunità che è difficile trovare altrove. Il futuro della world music, si è detto al convegno, passerà anche per una riscoperta della relazione sentimentale con le musiche, con quello che noi tutti – musicisti, operatori, organizzatori – facciamo e faremo. Se è vero, siamo nella direzione giusta.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Racconto dal Premio Parodi 2024, sempre meno "world music" ma sempre più riconoscibile
Il progetto Flamenco Criollo ha inaugurato con successo il Festival Aperto 2024