Petrucciani, la vita. E la musica?
Esce in Italia Body & Soul di Michael Radford, documentario sul pianista francese
Recensione
jazz
Dopo essere stato presentato a Cannes, esce con un inusuale battage pubblicitario il documentario su Michel Petrucciani con il poco fantasioso titolo di Body&Soul. Petrucciani (1962-1999), lo sappiamo, è stato uno dei più incredibili talenti della musica degli ultimi anni: malato di osteogenesi imperfetta, che impedisce la crescita corretta delle ossa, era alto poco più di un metro e aveva uno scheletro fragilissimo, che si rompeva ad ogni minima pressione. Da bambino scoprì il jazz (il padre era musicista), con il quale ha fatto una carriera velocissima, come veloce e breve è stata la sua vita. Pianista di stupefacente energia, con delle mani enormi e una inclinazione per la melodia senza pari, Petrucciani inevitabilmente richiama riflessioni sull’handicap e l’arte, sulla diversità fisica e la creatività. Un personaggio romantico, si potrebbe azzardare: arte e sofferenza, l’unicità del genio.
Per fortuna il film di Radford non va in questa direzione. Anche perché Petrucciani era tutto tranne un artista romantico: era un buffone allegro, esuberante e teatrale, divertente e trascinatore. Il film è pieno di momenti esilaranti, tratti da filmati amatoriali o da altri documenti video. Ma c’era anche una parte oscura: le droghe, una vita sregolata, il cinismo - se non semplicemente la superficialità - nel trattare le donne.
Una vita a tutta velocità, a cui il ritmo del film sta dietro, anche se senza particolare originalità. Radford - un regista inglese che ha prodotto film nella media come 1984 o Il postino - adotta una narrazione classica, con testimoni e materiali documentari, non si lascia sfuggire un solo cliché (l’orologio come metafora di una vita breve, le strade di New York) ma, grazie agli intervistati, azzecca qualche momento importante: ad esempio la delicatezza esplicita con cui la prima moglie racconta la sessualità di Petrucciani, e soprattutto la dura testimonianza del figlio, anche lui malato di osteogenesi imperfetta, che si ritrova a portare l’handicap senza avere il talento del padre. È molto gustoso quando viene svelata la tipica mitologia del jazz: il favoloso racconto del primo concerto di Petrucciani con Clark Terry, riportato dal padre, ha tutti i crismi della classica narrazione mitica, e infatti poi viene smentito da chi c’era. Il film non risparmia nulla al lato oscuro dell’uomo, peraltro senza mai giudicarlo, e lascia intendere quali sofferenze fisiche dovessero esserci dietro la maschera gioviale e burlona.
Purtroppo dove Radford lascia un buco è proprio la musica: è vero che viene illustrata l’abilità tecnica di Petrucciani, ma niente viene detto del suo stile, del suo pianismo, della sua arte. Sta a noi cercare di capire attraverso i tanti frammenti di concerti sparsi nel montaggio. Un’omissione tanto più problematica se si considera che Petrucciani è stato un pianista dotatissimo e ispirato ma tutt’altro che originale. Il suo debito con Bud Powell e Bill Evans, l’approccio tutto sommato naïf alla musica, la mancanza di approfondimento e riflessione sulla sua arte - un aspetto che viene per un attimo sfiorato da un testimone - avrebbero meritato un’indagine meno superficiale.
Ma il film di Radford ha un altro, pesante handicap: i tanti testimoni che si succedono rapidamente sullo schermo non hanno nome, non sono identificati da alcuna didascalia. Il risultato è che questo mosaico di volti è privo di senso, affatica lo spettatore e gli impedisce di valutare i contributi. Il padre e il figlio si identificano facilmente, così pure le mogli. E chi vi scrive è un professionista che ha riconosciuto Joe Lovano, Charles Lloyd (di cui si fa un’enorme fatica all’inizio per capire chi è e cosa fa), i baffi di John Abercrombie e ha intuito chi è Victor Lewis; ma io stesso non sono stato in grado di identificare un sacco di musicisti e testimoni che hanno un ruolo importante nel film e i cui nomi vengono elencati in ordine alfabetico nei titoli di coda. Per lo spettatore medio tutto questo è faticoso, disorientante e non aiuta la comprensione del film. Certo di questo Petrucciani si sarebbe fatto una risatina sotto i baffi.
Per fortuna il film di Radford non va in questa direzione. Anche perché Petrucciani era tutto tranne un artista romantico: era un buffone allegro, esuberante e teatrale, divertente e trascinatore. Il film è pieno di momenti esilaranti, tratti da filmati amatoriali o da altri documenti video. Ma c’era anche una parte oscura: le droghe, una vita sregolata, il cinismo - se non semplicemente la superficialità - nel trattare le donne.
Una vita a tutta velocità, a cui il ritmo del film sta dietro, anche se senza particolare originalità. Radford - un regista inglese che ha prodotto film nella media come 1984 o Il postino - adotta una narrazione classica, con testimoni e materiali documentari, non si lascia sfuggire un solo cliché (l’orologio come metafora di una vita breve, le strade di New York) ma, grazie agli intervistati, azzecca qualche momento importante: ad esempio la delicatezza esplicita con cui la prima moglie racconta la sessualità di Petrucciani, e soprattutto la dura testimonianza del figlio, anche lui malato di osteogenesi imperfetta, che si ritrova a portare l’handicap senza avere il talento del padre. È molto gustoso quando viene svelata la tipica mitologia del jazz: il favoloso racconto del primo concerto di Petrucciani con Clark Terry, riportato dal padre, ha tutti i crismi della classica narrazione mitica, e infatti poi viene smentito da chi c’era. Il film non risparmia nulla al lato oscuro dell’uomo, peraltro senza mai giudicarlo, e lascia intendere quali sofferenze fisiche dovessero esserci dietro la maschera gioviale e burlona.
Purtroppo dove Radford lascia un buco è proprio la musica: è vero che viene illustrata l’abilità tecnica di Petrucciani, ma niente viene detto del suo stile, del suo pianismo, della sua arte. Sta a noi cercare di capire attraverso i tanti frammenti di concerti sparsi nel montaggio. Un’omissione tanto più problematica se si considera che Petrucciani è stato un pianista dotatissimo e ispirato ma tutt’altro che originale. Il suo debito con Bud Powell e Bill Evans, l’approccio tutto sommato naïf alla musica, la mancanza di approfondimento e riflessione sulla sua arte - un aspetto che viene per un attimo sfiorato da un testimone - avrebbero meritato un’indagine meno superficiale.
Ma il film di Radford ha un altro, pesante handicap: i tanti testimoni che si succedono rapidamente sullo schermo non hanno nome, non sono identificati da alcuna didascalia. Il risultato è che questo mosaico di volti è privo di senso, affatica lo spettatore e gli impedisce di valutare i contributi. Il padre e il figlio si identificano facilmente, così pure le mogli. E chi vi scrive è un professionista che ha riconosciuto Joe Lovano, Charles Lloyd (di cui si fa un’enorme fatica all’inizio per capire chi è e cosa fa), i baffi di John Abercrombie e ha intuito chi è Victor Lewis; ma io stesso non sono stato in grado di identificare un sacco di musicisti e testimoni che hanno un ruolo importante nel film e i cui nomi vengono elencati in ordine alfabetico nei titoli di coda. Per lo spettatore medio tutto questo è faticoso, disorientante e non aiuta la comprensione del film. Certo di questo Petrucciani si sarebbe fatto una risatina sotto i baffi.
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