Noi invecchiamo. Marc Ribot no

Marc Ribot ritorna in solo, in acustico, al FolkClub di Torino; e tanto per cambiare è un concerto da ricordare

Marc Ribot al FolkClub
Recensione
jazz
FolkClub, Torino
Marc Ribot
08 Maggio 2019

Ci sono concerti che segnano profondamente, e che uno si ricorda a lungo: per me la prima di Marc Ribot in solo al FolkClub era stato uno di questi. La memoria di quella sera (che avevo ovviamente recensito) è rimasta a lungo presente anche negli anni successivi, uno di quei concerti “mitici”, di quelli che citiamo spesso come termine di paragone.

Marc Ribot (e Tom Waits) vs. Donald Trump

A forza di citare e ricordare – mi son reso conto (con un po’ di ansia) in prossimità della sua seconda in solo, l’altro giorno – sono incredibilmente passati dieci anni.

Ere geologiche: per dire, non esisteva Spotify. YouTube era disponibile in italiano da due anni. L’Inter avrebbe di lì a poco vinto lo scudetto. Strani scherzi della memoria (per esempio, non ricordavo assolutamente di aver ascoltato Ribot anche con Arto Lindsay nel 2014. E sì che dalla recensione il concerto mi era pure piaciuto. (Nel frattempo, nel 2013, il FolkClub aveva anche ospitato il trio Ceramic Dog).

Ma, come dice il direttore artistico del FolkClub, Paolo Lucà, in apertura di serata: «Siamo noi a invecchiare, non certo Marc Ribot», che rimane sempre eternamente uguale a se stesso – e dunque imprevedibile, inatteso, spiazzante.

Marc Ribot rocker politico

In effetti, lo stile è sempre quello, quell’antivirtuosismo un po’ sghembo che si ciba delle fonti più disparate e che segue un filo tutto suo. Ribot non è uno di quei chitarristi che si viene a vedere perché suona bene (cosa che ovviamente fa), ma perché suona bella musica. Se la prima volta c’era la chitarra elettrica e una matassa di cavi e distorsori, ora c’è solo una vecchia Gretsch acustica tutta scrostata e dal suono legnoso, con l’action del manico altissima e che Ribot gratta con un plettro gigantesco, o con le dita. Due set con dieci minuti di pausa in mezzo, due flussi che si interrompono solo qui e là, in cui il chitarrista infila Cuba, Monk, il blues e il country, sezioni delicate e minimali e altre in cui strappa le corde, scale e leak velocissimi che poi si interrompono di colpo come in un deficit di attenzione, come dire «sì, lo so fare. Perché devo finire la frase?».

La "scaletta" (virgolette d'obbligo) neppure aiuta più di tanto a navigare. Più che brani, indizi di idee – e alla fine, dire cosa abbia o meno suonato non è facile – ma che importa.

Marc Ribot - FolkClub
Che cosa ha suonato di tutte queste?

Non ci poteva essere fine migliore per la stagione numero 31 del FolkClub, che – dopo le difficoltà degli scorsi anni – si è rimesso in piedi sempre tenendo alta l’asticella: meno concerti (uno solo a settimana, anche per non auto-cannibalizzarsi il pubblico) e più gente: «la stagione con la maggiore affluenza media, fino a questo momento», spiega Lucà. Ci sono tutti i propositi perché ci si possa aggiornare tra altri dieci anni. Intanto, non facciamo che ci si perde di vista.

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