Nei labirinti di Steve Coleman
A Mantova Jazz i Five Elements di Steve Coleman in grande spolvero
I cinque elementi, attivi e creativi dal 1986, sono ancora una perfetta macchina da guerra: guidata con piglio sicuro e disinvoltura da uno Steve Coleman in forma smagliante, la band suona disinvolta le consuete partiture labirintiche del sassofonista, artefice di una scrittura fitta e controllatissima.
– Leggi anche: Steve Coleman oltre la musica
Recupero della data saltata l'anno scorso per l'emergenza sanitaria, il concerto al settecentesco Teatro Bibiena (un posto fantastico ma con un'acustica non nitida) è una lunga, inesorabile teoria di perfetti prototipi ritmici, di meccanismi montati e lucidati ad arte, articolati eppure miracolosamente fluidi: una frase ellingtoniana da cui viene chirurgicamente isolata una breve cellula ritmica, che viene esposta, capovolta, ricomposta e ripetuta da ogni possibile prospettiva fino a scarnificarla e ad innalzare un totem alla sacra divinità del groove.
Adrenalina, formule, satori, furore accademico, rigore, la matematica di un funk distillato in laboratorio, ostinati verticali e ripidissimi, sincopi, in qualche frangente ombre di frenesie caraibiche (il nostro ha esplorato le tradizioni di paesi come Cuba, Senegal, Brasile, Costa d'Avorio) che restano però sempre trattenute: la musica di Coleman restituisce sempre l'impressione di un controllo totale, che all'orecchio di chi scrive corrisponde – a tratti – anche, va detto, a un quid di distanza, di freddezza.
Plausibile questo dipenda in parte dalle altezze vertiginose a cui è giunto il musicista chicagoano (di stanza a New York da una vita), padrone totale di un dettato unico e personalissimo, una ricerca affilata e implacabile che indaga ancora ogni possibile spigolo dell'armonia e del beat, alla ricerca di una radice mistica del suono. Meno asettico di uno Steve Lehman, profondamente immerso nel continuum jazz (a un certo punto cita "Resolution" di Coltrane), coadiuvato da musicisti talentuosi e che hanno assimilato come una seconda pelle questo peculiare linguaggio, Coleman sonda i territori dove una figura ritmica si ripete, si ripete, fino a diventare altro.
Non è il minimalismo zen sghembo dei Ronin di Nick Bartsch, non è solo matematica, è una sintesi enigmatica e unica di tutto ciò che è black (negli esercizi di riscaldamento dietro le quinte pareva di sentire una Second Line di New Orleans) che ha l'unico limite di suonare a volte un po' prigioniera delle gabbie che essa stessa costruisce.
Strabiliante come il leader al contralto e Johnathan Finlayson alla tromba facciano sezione in due, grazie a una pronuncia senza la minima esitazione e a una scrittura sicura e che non ammette repliche, arricchita dagli ottimi interventi dell'Mc Kokai, che rappa e canta, fungendo quasi da fiato aggiunto e ricordando a volte le pagine migliori di certo avant-rap (i grandissimi Clipping, gli Anti-Pop Consortium).
La sezione ritmica, formata da Anthony Tidd al basso e da Sean Rickman alla batteria (bravissimo, ma lo vorremmo più secco, più funk, appunto) viaggia a velocità supersonica, gioca con il cubo di Rubik della pulsazione colemaniana divertendosi ad inseguire le funzionali aritmie (da un titolo di un disco PI del 2013): se, una tantum, la macchina andasse fuori giri, si inceppasse o il meccanismo smettesse di funzionare chi scrive crede che potremmo sentirne delle (ancora più) belle, ma questo è il mondo del Maestro Coleman, costruito in quasi quarant'anni di discografia, e presumibilmente tale resterà.
Il quintetto è parso comunque in grande spolvero, convincendo e suonando più ispirato di quanto non fosse accaduto tre anni fa a Roma. Resta la curiosità, quasi certamente destinata a rimanere insoddisfatta, di cosa potrebbe accadere se lo scienziato jazz del ritmo consegnasse le sue oblique strutture modulari a qualche terrorista sonico, per farle giungere al punto di fusione.
In coda, un poco di veleno: spiace davvero notare come, ora che timidamente ci riabituiamo a vivere una semi normalità che necessita, per la sicurezza e il rispetto della salute di tutti, che vengano rispettate le regole, come ci siano spettatori (non è la prima volta che ci capita, purtroppo) che ancora non hanno realizzato che c'è una semplicissima regola da rispettare: al chiuso si indossa la mascherina.
L'edizione 2021 di Mantova Jazz riserva alcune chicche: tra queste senz'altro i Ceramic Dog di Marc Ribot, che abbiamo ascoltato quest'estate in Romagna e vi abbiamo raccontato qui.
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