Mezzo secolo di composizioni di Wadada Leo Smith a Bologna
Alla testa di un inedito ensemble, Wadada Leo Smith ha animato due imperdibili serate ad Angelica Festival
Il Create Festival, pensato e voluto da Wadada Leo Smith, che difficilmente oggi si sposta dagli Stati Uniti se non per residenze più o meno lunghe, si è qualificato come un minifestival imperdibile all’interno di Angelica, Festival Internazionale di Musica che, giunto al trentatreesimo anno di vita, continua con grande coerenza a «rappresentare ogni forma di ricerca musicale – come si legge sul programma di sala – che si muova in ambiti non convenzionali, e che usi con libertà i molteplici materiali offerti dalle diverse tradizioni musicali».
Ben sedici i paesi del mondo da cui provengono i musicisti presenti nelle dodici serate di questa edizione che si chiuderà il 31 maggio.
– Leggi anche: La 33esima edizione di AngelicA
Alla testa del Purple Kikuyu, uno strepitoso ensemble cosmopolita e inedito, e dell’ottimo quartetto d’archi bolognese Istantanea [4], l’ottantunenne trombettista e compositore americano nei due affollati concerti tenuti al Teatro San Leonardo ha presentato complessivamente undici suoi lavori scritti dal 1970 a oggi, dei quali alcuni in prima italiana, altri in prima europea o in prima assoluta.
In tutte le opere presentate, anche se l’improvvisazione è intervenuta in modo determinante negli spazi assegnati ai vari interpreti, la prevalenza dell’aspetto compositivo è stata resa evidente da una serie di indizi: la presenza di spartiti, gli attacchi e i cenni dinamici dati con determinazione dal leader di volta in volta ai componenti della formazione, la stessa nitidezza strutturale con cui si è svolto l’arco narrativo delle singole composizioni… D’altra parte i membri dell’ensemble, scelti uno ad uno da Smith per l’occasione, sono stati i motivati e attenti esecutori delle sue intenzioni creative: due i batteristi, Pheeroan aKLaff e Frank Morrison, due le pianiste, Sylvie Courvoisier ed Erika Dohi, quest’ultima molto raramente anche all’elettronica, al basso elettrico Skúli Sverrisson, al violoncello Ashley Walters, oltre a Wadada sempre molto presente alla tromba. Presentato come ospite, e più utilizzato di quanto comparisse sul programma, il giovane chitarrista Lamar Smith, nipote del compositore.
Sarebbe impossibile, oltre che tedioso, addentrarsi in un’analisi descrittiva delle idee tematiche e delle strutture che si sono avvicendate in tutti i brani eseguiti. È dalla concatenata successione di mirate aggregazioni strumentali, di episodi melodici, di complessità armoniche e timbriche, di sortite solistiche che ha preso corpo e identità il percorso di ogni singola composizione.
Si può citare il primo, lungo brano della seconda serata, che ha collegato Garden of Peace scritto nel 2020 e Central Park in August risalente al 2007, come caso esemplare delle eterogenee situazioni che si sono susseguite: un incedere melodico-ritmico dal sapore decisamente mediorientale, tramato dal basso affiancato dalle due batterie, ha lasciato presto il posto a un icastico quintetto formato da tromba, violoncello, basso e i due pianoforti, per poi gradualmente comprendere l’intero settetto, o l’ottetto, quando si è inserita anche la chitarra ospite, salvo frazionarsi di nuovo in più ridotti raggruppamenti.
Si è così verificato il passaggio da momenti melodici di evocativa espressività a fasi di decantazione tendenti al silenzio, da rarefazioni quasi intellettualistiche all’esplosione di una concitazione percussiva. A tale proposito è il caso di ricordare anche l’incipit del pezzo che ha chiuso la prima serata, in cui su un contesto diradato e delicatissimo, intessuto dal piano di Courvoisier e da un appena accennato uso dell’elettronica da parte di Dohi, la tromba sordinata del leader ha tracciato una melodia interiorizzata e struggente.
Vale la pena di sottolineare inoltre la limpida scrittura contemporanea che ha inequivocabilmente caratterizzato String Quartet no. 3 – Black Church, del 1995, affidato ai quattro interpreti di Istantanea [4]: Alma Napolitano e Pietro Fabris ai violini, Giulia Arnaboldi alla viola ed Enrico Mignani al violoncello. Tutti concentratissimi, dotati di notevoli capacità espressive e contornati dall’attenzione immobile dei musicisti dell’ensemble trattenuti sul palco, compreso il compositore visibilmente soddisfatto, hanno dato luce e colore alle fasi di una parabola narrativa cangiante per finire con ondate turbinose di suono. In String Quartet No. 6 – Taif: Prayer in the Garden of the Hijaz, del 2007, in prima assoluta, il quartetto d’archi era invece coadiuvato da membri del Purple Kikuyu, facendo emergere a tratti momenti dagli umori forti, scanditi con decisione.
A conclusione delle due serate si è avuta un’idea complessiva della visione compositiva di Smith. A ben vedere, sebbene le composizioni coprissero l’ultimo mezzo secolo della sua attività, non si sono rilevate marcate differenze strutturali fra di loro: come si è detto, ognuna era animata da un’alternanza fra differenti aggregazioni strumentali, dando però un peso fondamentale anche alle pause di passaggio, agli smorzamenti e alle riprese del volume, ai cambi di direzione tematica. L’accostamento alla musica contemporanea e alle sue modalità tecnico-espressive, a cui in precedenza ho fatto riferimento, può essere considerato azzardato e riduttivo, valendosi di un’etichetta di comodo secondo un’ottica eurocentrica; sono convinto che Smith non accetterebbe mai questa definizione per la sua musica presentata ad Angelica.
Ancor più, e giustamente, non approverebbe che la si chiamasse jazz. Come ogni autore orgoglioso del suo processo creativo non può che ritenere personali e uniche le sue creazioni, al di fuori di qualsiasi genere, etichetta o tendenza.
Eppure in certi crescendo improvvisi e avvincenti del collettivo o di formazioni più ristrette – per esempio nella concitata progressione scatenata dal leader con aKLaff e Sverrisson nel finale di Phoenix (1979) – come non vedere uno stretto legame con l’improvvisazione di matrice jazzistica? Altrettanto si può dire se si considera la pronuncia strumentale dei componenti dell’ensemble, a partire dalla tromba del leader con i suoi attacchi decisi e potenti, la sua sonorità tersa e luminosa salvo irruvidirsi in screziature e drammatiche note strozzate. Il basso elettrico di Sverrisson si è distinto per l’avvolgente morbidezza del fraseggio, dell’incedere e del sound, per la sua presenza indispensabile ma allo stesso tempo quasi appartata, mentre i due batteristi, raramente utilizzati assieme, hanno esposto due drumming diversi e complementari: continuo, fremente e frastagliato quello del quasi esordiente Morrison, imponente, poderoso ma sapientemente spaziato quello dell’attempato ed esperto aKLaff.
Anche la chitarra elettrica del giovane Lamar Smith, nei pochi interventi assegnatigli, ha espresso una sorprendente determinazione. Come non vedere infine un approccio personale e volitivo, legittimato dall’improvvisazione con esiti espressivi ineludibili, anche nelle ampie, evocative e liriche arcate della violoncellista, quasi una “spalla” costante al fianco del leader, o nel tocco percussivo di Sylvie Courvoisier, nel suo distillare note cristalline, nel frenetico tamburellare sul registro acuto della tastiera deformato da un’estemporanea preparazione della cordiera?
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Stefano Battaglia e Mirco Mariottini chiudono ParmaJazz Frontiere
Pat Metheny è sempre lui: lo abbiamo ascoltato dal vivo a Madrid
La sessantunesima edizione della rassegna berlinese tra “passato, presente, futuro”