MetJazz, foto di gruppo del nuovo jazz italiano
Sul palco del Teatro Fabbricone di Prato per Metjazz 2018 Simone Graziano Snailspace e Ghost Horse di Dan Kinzelman
Per il secondo appuntamento di Mejazz 2018 Lingue oltre i confini, il direttore artistico Stefano Zenni ci offre in due set uno stimolante confronto tra formazioni che stanno scrivendo, costruendo, con altre realtà, le estetiche del nuovo jazz italiano. Evidenzio questa espressione che Zenni usa nella breve nota della brochure della rassegna perché significativa, e perché riconosce che il jazz di casa nostra possiede una propria e riconoscibile strada di ricerca progettuale.
Sul palco del Fabbricone di talenti ce ne sono in abbondanza, ben distribuiti nel progetto Snailspace di Simone Graziano e Ghost Horse di Dan Kinzelman (lui in verità è statunitense ma da molti anni integrato e attivissimo nella nostra realtà musicale). I due progetti sono il risultato di due azioni speculari: il pianista Graziano prosciuga il proprio quintetto Frontal nella classicità della forma trio, Kinzelman amplia il trio Hobby Horse in sestetto. Il trio ha già alle spalle un cd uscito qualche mese fa per Auand (alla batteria però c’era Tommy Crane), il sestetto invece è freschissimo e presenta materiali nuovi non ancora registrati. Risulta alquanto illuminante l’ascolto ravvicinato delle due formazioni, possiamo verificare in tempo reale i diversi e lontani approcci sul fronte delle trame compositive, del suono, delle dinamiche interne.
Apre Snailspace e praticamente entrano subito in gioco due livelli di fruizione, quello comunque condizionato di chi conosce il cd e di chi è al primo ascolto. Bastano pochi minuti per capire che rispetto al disco pianoforte e tastiere di Graziano sono più dispersive, dilatano gli aspetti melodici con blocchi accordali, soluzioni d’effetto, poca profondità e qualche meccanicità nei passaggi tra un brano e l’altro. E sappiamo bene come nel delicato equilibrio del trio jazz, anche se qui se ne prefigura una rilettura che tagli i ponti con il passato in una visione paritetica, ogni defezione di tensione e interplay vada a discapito dell’architettura complessiva. È evidente che Graziano, sia sul piano compositivo che espressivo, è attratto dai panorami sonori che caratterizzano certo jazz nordeuropeo (dalle parti di Ethan Iverson, Esbjörn Svensson per capirci). Ma non solo: inserisce nella trama le fascinazioni di ambienti pop-rock come alcune estetiche classico contemporanee. In piena logica paritetica Francesco Ponticelli e Enrico Morello si muovono con vivace personalità. Il contrabbassista non solo garantisce solidità sonora e ritmica, ma con l’uso delle note più scure del sintetizzatore amplifica sfondi mobili e densi mentre Morello prefigura un approccio quasi sinfonico, su ogni elemento dello strumento disegna un percorso dinamico, elegante e frastagliato che completa un quadro d’insieme di alta qualità.
Al di là dei livelli di volume che un sestetto riesce a trasmettere rispetto a un trio, Ghost Horse di Kinzelman, come altre sue formazioni, muove proprio da altri lidi. Traccia una distanza rispetto alle estetiche nordiche a favore di un jazz molto fisico, caldo, a tratti parossistico. La scrittura favorisce una polifonia che lascia pochi spazi ai soli esaltando gli intrecci strumentali, la ricerca di un suono collettivo. Il sassofonista allontanando nostalgie neworleansiane riesce a dare a questa scelta stilistica un carattere moderno, lontano dal free ma comunque libero e radicale. Gli africanismi, mai esotici, esaltano una rappresentazione, anche con l’uso delle voci, che non può non rimandare alla tradizione mescolata con sperimentazione e satira dell’Art Ensemble of Chicago, come ai giri armonici mingusiani con le sue ricche modulazioni, cambi di tempi e clima. Anche se, come detto, il materiale proposto è in cantiere quindi soggetto a ritocchi, Ghost Horse è già un progetto scoppiettante, coinvolgente, con una sua forte identità. Kinzelman si attornia di musicisti creativi quanto rigorosi nelle logiche della trama compositiva. Su tutti la chitarra di Gabrio Baldacci che da proprio e vero guastatore ha il compito di graffiare il magma sonoro del gruppo, lo fa con idee, energia e guizzi mirabili. Ma anche i piatti e le pelli di Stefano Tamborrino risultano decisivi nell’accumulazione immaginifica e inesauribile di un metro ritmico, coloristico e variegato, che regala alla musica pulsione minimalista ma esplosiva. Il basso elettrico di Joe Rehmer satura ogni spazio, sommato al basso tuba di Glauco Benedetti costruisce un vero muro di suono sul quale le ance di Kinzelman e il trombone di Filippo Vignato possono liberamente dialogare, giocare, scontrarsi.
Complessivamente una bella fotografia quella scattata al Teatro Fabbricone di Prato per il secondo appuntamento di Metjazz 2018. Una documentazione che ci rassicura sugli sviluppi futuri, creativi e progettuali, del jazz italiano. Rimane ancora da mettere a fuoco qualcosa, equilibrare, sperimentare e crescere, ma le idee, le forze e le passioni non mancano.
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