Marc Ribot e il ritorno del cane di ceramica
Dal vivo per Strade Blu il trio di Marc Ribot si conferma ai vertici della musica creativa
Forse sta tutto negli spartiti stropicciati e pieni di cancellature che il leader del terzetto sfoglia svagato e lascia a terra: in quel dettaglio risiede un segno dell'attitudine del cane di ceramica, la creatura che Marc Ribot condivide con Shazhad Ismaily (basso, chitarra, synth e una minibatteria da battaglia) e Ches Smith (batteria).
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Del resto, lo ha detto lo stesso Ribot: «Dire che noi facciamo jazz è come dire che chi trova una macchina da scrivere in una discarica è uno scrittore». Ceramic Dog, ospite della storica rassegna romagnola Strade Blu per la seconda di due tappe italiane del tour europeo, suona lirico e selvatico ("The Long Goodbye"), a volte annusa e fruga nella spazzatura o spettina le pozzanghere dove si specchia Hendrix per raccogliere un pezzo e portarlo in gloria; oppure sale in corsa su una locomotiva punk con disturbi di batteria elettronica come fossimo in un flipper (i pad molto creativi e azzeccati di Smith, a trafiggere l'impianto già volutamente apparentemente traballante dei pezzi), per poi deragliare in una splendida catatonia math che ricorda i grandi Storm & Stress.
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Musica di un crollo, di una precarietà, di un bilico: un 7/8 straccione, con la proverbiale chitarra spettinata e graffiante del chitarrista di Newark, poi la sei corde ribelle e unica che suona come un oud e per magia finiamo nel profondo Medio Oriente. Una sapida pietanza dub/soul è invece quella offerta in "Pennsylvania", un pugno di note di basso con una coda latina (posticcia, come l'identità dei suoi Cubanos Postizos).
Ismaily resta sempre di proposito un passo indietro mentre Smith è funambolico (notevole il suo ultimo lavoro dedicato alle musiche di Haiti con la band We All Break, su Pyroclastic Records). I nostri non si interessano, per fortuna, ad alcun galateo e, con la spensierata naturalezza e l'irruenza naturale dei monelli imbastiscono un live travolgente e grondante energia, tra free-latin-rock e avant-punk, con benvenute parentesi di astrazioni, come quando Ismaily al moog viene lasciato solo a grattare le unghie al cielo.
Abbozzi, schizzi, scosse elettriche, telluriche, fibrillazioni, un suono che pare sempre sul punto di traslocare altrove eppure è miracolosamente puntuale e chirurgico nel suo essere sempre appena fuori fuoco, vulcanico, anarchico, con Ribot a frugare in ogni spigolo. Il bolero dadaista di "Maple Leaf Rage", i Rolling Stones rifatti proprio come Zappa riprese (toh!) Ravel e i Led Zeppelin: «Nessuno di voi è degli Stones, vero? Non glielo direte che abbiamo cambiato il testo della canzone per non pagare i diritti? Ora divento professionale ed accordo la mia chitarra».
Contento di tornare alla sua dimensione naturale, a contatto con un pubblico entusiasta, quello che alcuni conoscono solo come “il chitarrista di Tom Waits” è felice di togliersi la polvere di dosso: «Siamo un po' arrugginiti, siamo stati in frigo diciotto mesi»: Non si direbbe, e comunque, come detto, la ruggine è parte della natura di questa perfetto e scalcagnato meccanismo rock; ascoltiamo anche inediti, non compresi nei due album della band: "Ecstasy" come dei Velvet Underground persi per le strade di La Havana. C'è spazio anche per il funk-spoken word affilato di "The Activist", dall'ultimo Hope e, dallo stesso lavoro, per una versione di "Wear Your Love In Heaven" di Donovan: «Se prendi una canzone e butti via le parti che non ti piacciono, ti accorgi che il resto è molto bello».
Ribot si conferma un musicista cruciale, da seguire in ogni sua scorribanda e Ceramic Dog un trio delle meraviglie che dal vivo è un inno alla libertà.
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