Ma quali mostri?

Qualche perplessità per il lancio italiano dei nuovi idoli indie Of Monsters and Men

Recensione
pop
Indie? Folk? Le dispute sulle etichette non mi appassionano, ma quando certi termini sono usati a sproposito non si può resistere a diventare pignoli. Lontano anni luce da nostalgie di dylaniana o drakiana memoria, il “folk” invocato per Of Monsters and Men, giovane band islandese che ha raggiunto il successo internazionale negli ultimi mesi, dovrebbe richiamare le atmosfere languide di figure come Damien Rice. L’“indie” dovrebbe invece rimandare agli Arcade Fire, o almeno questo sostiene il "Rolling Stones": come non fidarsi?

Ebbene, di Rice c’è la presenza del doppio vocalist maschile-femminile, che ormai è diventato un imperativo del genere, con punte di stereotipia sconcertante tra molti gruppi del centro e del nord Europa. Una stereotipia che si ritrova puntualmente negli Of Monsters and Men, che si limitano a usare le (scarse) risorse vocali con raddoppi all’ottava – per sentire una terza bisogna aspettare l’ultimo brano della scaletta. Degli Arcade Fire, con buona pace del blasonato magazine americano, c’è giusto l’elevato numero di componenti, sette, ma impiegato anche in questo caso in modo banale, con poche, pochissime idee negli arrangiamenti. Mettiamoci una fisarmonica e una tromba a fare folklore e una chitarra elettrica a fare del timido noise e il piatto è servito: ecco il nuovo indie-folk islandese.

Nulla contro i malcapitati ragazzi, che reggono bene il palco e sprigionano simpatia di fronte a un pubblico milanese che risponde con calore, ma le aspettative che la stampa (e MITO) hanno costruito intorno al loro lancio italiano sembrano quantomeno fuori luogo. Con i loro ritornelli da cantare tutti in coro, gli Of Monsters and Men possono ambire a un pubblico di adolescenti cresciutelli e quindi, va da sé, a vendite considerevoli (che stanno già riscuotendo), ma non possono essere annoverati come una realtà interessante della scena underground o indipendente, anche perché di underground o indipendente non hanno proprio nulla, dato che al primo album sono già sotto contratto con la Universal e girano il mondo su palcoscenici di prima fascia, altro che pub e cantine. D’altra parte la band sembra esserne totalmente cosciente, e le va reso merito di avere adoperato sul sito ufficiale l’aggettivo ottimale per la propria musica: "amabile", proprio come un vino senza troppe pretese.

La nota migliore del concerto è paradossalmente l’artista “di spalla”, la songwriter islandese Lay Low, nata a Londra e con origini miste dello Sri Lanka, che apre il concerto e dimostra di avere carattere da vendere, quel carattere che è amabilmente mancato per il resto della serata.

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