Londra occupata | 2

Dai giovani pianisti agli operatori internazionali

Recensione
jazz
Con i suoi duecentocinquanta e passa eventi in dieci giorni, il London Jazz Festival si impone senza dubbio come una delle manifestazioni più imponenti della scena internazionale. Ovviamente il programma punta anche sui grandi nomi, ma c’è una presenza diffusa di artisti inglesi che sorprende, se paragonata alle nostre latitudini. In effetti il festival può essere percorso come una gigantesca vetrina del jazz britannico, esplorato in tutte le varietà di stili ed esperienze generazionali, dal veterano Peter King, che ha suonato con Roy Haynes, all’improvvisatore Matthew Bourne: panorama affollato nel quale trovano posto anche giovani italiani, come la cantante Giorgia Mancio o il bassista Andrea Di Biase, ormai radicati lì con successo. Impossibile rendere conto del fittissimo programma, per cui le osservazioni che seguono non riflettono la varietà di esperienze che il festival, e il jazz inglese, offrono. Nei quattro giorni conclusivi abbiamo ascoltato per puro caso solo pianisti (in effetti un altro modo di attraversare la vivace giungla londinese). L’ubiquo Gwilym Simcock presentava tra le altre cose la prima di "Horizons", una composizione per voce solista, coro e trio jazz, che però non si è discostata da un easy listening jazzato, illuminato dall’interessante voce baritonale del giovane Kwabena Adjepong. Delusione per un altro nome assai gettonato, l’esuberante Neil Cowley, in trio più quartetto d’archi, ascoltato al Pizza Express Jazz Club in una “secret gig” di mezzanotte solo per invitati: essenzialmente un pop acustico elementare, energico e ripetitivo. Più interessante è stato l’emergente John Escreet, che si è esibito in solitudine prima di Henry Threadgill: in bilico tra razionalismo intervallare e scatti informali, il suo pianismo soffre a volte di eccessivo controllo ma lascia intravvedere un pensiero divergente, angoloso e tormentato. Nel precedente post abbiamo accennato all’esibizione di Matthew Bourne, i cui mimetismi romantici e le nervose eccentricità free lasciano però la sensazione di un gioco sì urgente ma anche fine a sé stesso, seppure temperato da un certo gustoso umorismo.

Uno spaccato assai più ricco è stato offerto agli operatori ospiti del British Council, che ha organizzato una serie di incontri tra addetti ai lavori provenienti da ogni angolo del mondo. È stata un’occasione preziosa per ascoltare le testimonianze di organizzatori, agenti, produttori provenienti dalla Palestina, da Egitto, Algeria, Indonesia, Ucraina, Estonia, Filippine, Cina (con ben due rappresentanti), oltre ovviamente a Stati Uniti, Germania, Danimarca, Francia, Italia (il sottoscritto, riempito di pacche sulle spalle per la caduta di Berlusconi). Incontri che confermano la dimensione globale del jazz ma al tempo stesso la varietà di significati che esso assume nei vari luoghi: a Gerusalemme Est vuol dire inventarsi luoghi e occasioni sotto il tallone dell’occupazione, in Ucraina consente di far passare discorsi sui diritti umani, in Cina di collegarsi a culture assai distanti (ad esempio quelle scandinave), in Algeria ed Egitto di costruire il futuro attraverso la cultura.
A promuovere questa rete è anche Serious, la società che organizza il festival (in modo semplicemente impeccabile) in prevalenza con soldi pubblici, e che tra le altre cose promuove Take Five, un programma di sostegno e promozione di artisti internazionali emergenti a cui vengono offerte possibilità di incontri, scambi, approfondimenti professionali. Ci è così capitato di partecipare a gustose riunioni a carattere perfino ludico che ci hanno svelato un panorama artistico e organizzativo sorprendente, di cui in Italia conosciamo poco o nulla, e che per estensione e vivacità richiede invece tutta la nostra attenzione. Anche perché mentre noi arretriamo, loro danno una forte sensazione di crescita. Sarebbe il caso di cominciare a capire come si fa.

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