Londra occupata | 1

Il London Jazz Festival è il gigante delle rassegne inglesi

Recensione
jazz
Decine di concerti distribuiti nei luoghi più diversi (sale da concerto, musei, chiese, club); jam session; seminari; meeting professionali. Il London Jazz Festival è una manifestazione monstre che "occupa" la città e i dintorni per dieci giorni, al ritmo ecumenico del jazz più diverso, dal mainstream al free, dall'elettronica alla world. Con un occhio di riguardo al jazz britannico, coccolato e sostenuto da Serious, l'organizzazione deputata alla gestione del festival, e dal British Council, che ha invitato ospiti da tutto il mondo - dall'Indonesia all'Egitto, dall'Estonia all'Algeria, e ovviamente dall'Italia, nella persona del vostro cronista - per toccare con mano una realtà vivace e in piena crescita. In questa prima occasione vogliamo rendere conto di quanto abbiamo ascoltato negli ultimi giorni del festival: poca cosa rispetto al fittissimo programma, che dal primo pomeriggio a tarda notte proponeva anche tre o quattro eventi contemporaneamente. Un'abbondanza che all'inizio può apparire frustrante (ci siamo persi Archie Shepp & Joachim Kuhn e Charles Gayle & Han Bennink), se non fosse che l'accorta distribuzione di generi e stili permette di ritagliarsi il proprio festival. Lungi dall'essere uno spaccato significativo, la nostra cronaca deve registrare tra gli highlights il concerto di Zooid di Henry Threadgill, ascoltato due anni fa in una prova opaca a Rovereto e qui invece - a dispetto dell'amplificazione mediocre della Queen Elizabeth Hall - in grande forma. Sotto, ben nascoste da giri di basso ritmicamente elusivi, ci sono forme chorus rigide e chiuse, che però sostengono una musica ribollente, polifonica, astratta e danzante. E quando la musica cresce - con Threadgill che spinge con il sax alto - si ha la sensazione di toccare un'eccitante sintesi tra chiusura e liberazione, tra ordine e caos che disorienta e rassicura.

Più "empatica" e addirittura commovente è stata la prova di Kenny Wheeler nella chiesa di St. James a Piccadilly, vibrante dell'entusiasmo del pubblico. La collana di pezzi che compongono la Mirrors Suite, per soli, coro e gruppo jazz ha una qualità discorsiva, swingante e colloquiale, diretta, che si infila tra le pieghe, non di rado umoristiche, dei testi di Carroll e Yeats. Il London Vocal Project, costituito da studenti di canto, esegue per un'ora e passa tutto a memoria, trascinato dalla carica contagiosa del suo brillante leader, l'infaticabile Pete Churchill. Wheeler, indebolito nel corpo ma integro nella musica, traccia pennellate di intensa concisione, a fianco della voce sempre limpida e misurata di Norma Winstone.

Un altro tassello del festival va a comporre la collaborazione tra musicisti e istituzioni. Alla Purcell Hall (non bella ma con un'acustica da favola) va in scena un altro capitolo della felice serie Written/Unwritten, in cui gli eccezionali solisti della London Sinfonietta incontrano improvvisatori e compositori di varia estrazione. Stavolta tocca al redivivo percussionista Vladimir Tarasov (che in collaborazione con l'ambasciata lituana esponeva anche installazioni audio/video) e al pianista Matthew Bourne, enfant terrible della scena sperimentale inglese. Il programma mescola brevi pagine novecentesche (Xenakis, Berio) eseguite come meglio non si potrebbe con composizioni e improvvisazioni degli ospiti. Al di là dei singoli risultati (curioso il pezzo di Bourne, debole quello di Tarasov, che si riscatta in una gustosa miniatura per due percussioni), salta agli occhi la distanza ormai ridotta tra improvvisatori jazz e i più giovani interpreti classici, avvicinati da una necessità stilistica che non è eclettismo, ma abbattimento delle barriere.

Infine ci è capitato di ascoltare il vacuo progetto di Richard Galliano su Nino Rota, il convenzionale pianista svizzero Christoph Stiefel (prima di Wheeler) e il quartetto del giovane sax tenore turco Ilan Ersahin, che per un paio di nottate ha portato a Londra i decibel disco-etno-jazz del club Nublu di Istanbul. C'è poi il capitolo della scena inglese e del meccanismo istituzionale, ma ne parliamo nel prossimo post di questo blog.

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