Loano, l'avanguardia della tradizione

Il racconto della dodicesima edizione del Premio per la musica tradizionale

Recensione
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Mano a mano che il programma del Premio Loano 2016 si componeva, si è cominciato a percepire un disegno coerente, come se i tasselli stessero andando tutti piano piano a posto. I programmi, soprattutto quando c’è una direzione artistica che sa lavorare (e Loano è uno di questi casi da oltre un decennio, grazie al lavoro della Compagnia dei Curiosi e di John Vignola), non nascono mai per caso, naturalmente. Ma è un piacere vedere come da una sera all’altra, da un incontro all’altro, ritornassero gli stessi temi, gli stessi nomi, le stesse idee, le stesse – anche – amicizie: itinerari umani nel folk italiano. Da un lato, qualcuno potrebbe insinuare che di nicchia si tratta, abitata da pochi giapponesi in attesa che gli dicano che la guerra è finita: “la musica popolare è morta, stateci”.

Nessuno naturalmente nega che di nicchia si tratti… Eppure, sono realtà come Loano che ancora una volta dimostrano l’importanza della nicchia, e la capacità (e la necessità) di aprirsi al famigerato “grande pubblico”, senza tradire la propria vocazione.
In questo, il grande fermento di idee e di persone che ruotano intorno al Premio Loano non sono retroguardia di una scena prima florida, ma avanguardia di qualcosa di là da venire.

Tasselli che vanno a posto, si diceva: uno dei filoni del Premio Loano 2016 è quello ligure. La rassegna, negli anni, ha sempre fatto molta attenzione a non cadere nella trappola di celebrare le proprie glorie locali. La vittoria del premio per il Miglior Disco (assegnato da una giuria di giornalisti) da parte del genovese Filippo Gambetta, dunque, non poteva trovare miglior contraltare se non nell’invito alla Compagnia Sacco di Ceriana. L’occasione è l’uscita del nuovo cd Tabulae, ben raccontato da Davide Baglietto e da Beppe Greppi di Felmay, che lo ha prodotto. Chiunque abbia avuto a che fare con la Compagnia Sacco ne conosce non solo il valore tecnico, ma l’umanità e la gioia di cantare, che si è ben manifestata anche la sera, nella cornice del bell’Oratorio delle Cappe Turchine (e ancora dopo, al ristorante, e in strada...)



Filippo Gambetta si è invece esibito due sere dopo, insieme alla violinista e pianista canadese Emylin Stam, sul sempre frequentatissimo palco sul lungomare. I brani del suo recente Otto baffi (ne abbiamo parlato qui) raccontano di un percorso di studio e lavoro sulle potenzialità dell’organetto, e allo stesso tempo – per quanto incredibilmente ricchi di idee armoniche – mantengono una leggerezza, una ballabilità tutta popolare (anche se, ai moltissimi ballerini accorsi, a volte serve qualche secondo di più per decodificare il ritmo…). Interessante poi, alla prova del live, l’accostamento con il pianoforte: non è facile tenere insieme due strumenti del genere, che per loro stessa struttura prevedono due “mani”, melodia e accompagnamento, ma l’esperimento funziona perfettamente e fa ben sperare per il futuro.



La sera prima si era esibito, sul lungomare, il cantautore molisano Giuseppe Moffa con i suoi “compari”. Il suo ultimo disco, Terribilmente demodé (ne abbiamo scritto qui), ha convinto la critica fino ad arrivare al terzo posto dopo Gambetta e il Bella ciao di Tesi & co.: e meritatamente. Moffa punta su una formazione molto poco “tradizionale” e molto “blues-rock”, con piano, hammond, contrabbasso, percussioni e violino, e lui stesso impugna più la chitarra che non la zampogna (con cui regala solo qualche intermezzo). La scelta è interessante, e valorizza le canzoni: gli stilemi – o almeno i rimandi – “popolari” che le affollano ne escono più nitidi, non per un qualche colore strumentale ma direttamente dalla scrittura. Il pubblico locale gradisce. E, anzi, stupisce quando mostra di conoscere perfettamente una delle “cover” proposte, “La mogliera” del molisano Eldo Di Lazzaro (trattasi di un pubblico di età media abbastanza avanzata, c'è da dire): anche qui, strani itinerari che giungono a compimento a Loano.



Il concerto di Moffa era stato anticipato dalla consegna del Premio per la Realtà Culturale all’Istituto Ernesto De Martino. Stefano Arrighetti e Antonio Fanelli, intervistati da Enrico de Angelis, e insieme a Gualtiero Bertelli, hanno raccontato l’attività dell’Istituto, che dal 1966 porta avanti un improbo lavoro di documentazione e studio sul “mondo popolare e proletario”, prima a Milano e oggi a Sesto Fiorentino. I protagonisti dell’irripetibile stagione del folk revival ritornano anche il giorno successivo, nella presentazione del volume La musica folk (il Saggiatore 2016), con il curatore Goffredo Plastino, Ciro De Rosa e il sottoscritto. Un libro di dimensioni considerevoli (quasi 1400 pagine, più una sezione online: ne abbiamo parlato qui) che ha il merito di non rinunciare a collegare il passato del folk revival con il suo presente. La presenza di Filippo Gambetta sul palco della presentazione, in quanto “case study” cui è dedicato un intero saggio nel libro, ben lo dimostra.

Anche la presenza di Gualtiero Bertelli, premio alla Carriera per il 2016, si inserisce in questo gioco passato-presente: se la sua storia è cominciata, come autore e come musicista-militante, nel giro del Nuovo Canzoniere Italiano, Bertelli ha continuato a portare in giro i suoi materiali storici e a scriverne di nuovi (anche recentemente), approdando anche al teatro. Al netto di ogni discorso politico, d’impegno, di filologie varie, “Nina” – una delle sue prime canzoni – rimane una delle canzoni d’amore più belle mai scritte in Italia. Ascoltata in apertura del concerto di Capossela, chitarra e voce, è ancora capace di far trattenere il fiato a un migliaio di persone: e non è retorico che Bertelli ne ricordi l'attualità, ancora oggi.



Infine, l’attesa chiusura con il concerto di Vinicio Capossela all’Arena del Principe. Un finale perfettamente adeguato: anche nelle Canzoni della Cupa (ne abbiamo parlato qui) ritornano, pur filtrate attraverso la particolarissima personalità di Capossela, moltissimi dei fili che si sono intrecciati nei dodici anni di Loano (a partire da Otello Profazio e Matteo Salvatore, omaggiati nel disco ed entrambi premiati dalla Compagnia dei Curiosi negli scorsi anni). Il concerto – pensato in particolare per il Premio – si concentra per un buon 90 percento sui materiali dell’ultimo lavoro discografico. E, come il disco, vive di alti e di bassi. Ma alcune cose sono davvero irresistibili: in particolare i momenti in cui Capossela non prova a “rifare” brani tradizionali, o a inventarsi dei finti-popolareschi, ma quando esercita il suo personale sguardo su elementi della cultura popolare, usandoli come “ispirazione” più libera: “Componidori” ad esempio, che prende una figura della giostra della Sartiglia di Oristano e la trasfigura in un personaggio epico, simbolo dell’umanità tutta, è un piccolo capolavoro. Altri momenti più “revivalistici”, come gli omaggi a Matteo Salvatore, semplicemente, funzionano meno – ma poco importa: tutto diventa, alla fine, una grande festa con “Al veglione” (“Da Ciccillo ristorante…”), l’immancabile “L’uomo vivo” (ormai un manifesto di poetica), “Al Colosseo”, “Il ballo di San Vito” e, ancora, “Il treno”, a chiudere il cerchio con le canzoni della Cupa, e con un festival che tornerà l’anno prossimo, dalla sua nicchia, a conquistare il mondo (popolare, e non solo), all'avanguardia di quello che può essere oggi la musica "tradizionale".

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