Le parole chiave di Bergamo Jazz
Il festival jazz di Bergamo in 10 comodi hashtag
Una pioggerellina persistente – ma mai fastidiosa e galante nel lasciare spazio al sole nella giornata di sabato, quando era in programma un concerto all’aperto – ha accompagnato Bergamo Jazz 2017, con la direzione artistica del trombettista Dave Douglas. Non sappiamo se in futuro questa edizione sarà ricordata come un punto di snodo nella già prestigiosa storia del festival bergamasco, ma è certo che si sia trattato di un anno in cui la manifestazione ha dimostrato non solo lusinghieri risultati di pubblico e un’ottima qualità artistica, ma anche mostrato di volersi e sapersi evolvere verso modalità più coinvolgenti e dinamiche.
Ottime indicazione quindi dalle intense giornate del Festival, che qui provo a raccontarvi attraverso dieci parole chiave (o hashtag) che ne riassumono i temi principali.
#luoghi
Tra i motivi più rilevanti dell’ottima riuscita di questa edizione del Festival – come ha più volte sottolineato anche lo stesso Douglas – c’è sicuramente il fatto di avere attivato un rapporto più articolato e diretto con la città e i suoi luoghi.
È un elemento che mi sembra di grande soddisfazione, non solo perché più volte, commentando le scorse edizioni per "il giornale della musica", avevamo indicato proprio in un maggior coinvolgimento del territorio la chiave per uno sviluppo strategico (nulla di particolarmente “divinatorio”, eh, solo un’ottima pratica che molti altri grandi festival si ostinano a ignorare), ma anche perché si percepiva in modo netto un rinnovato e più spontaneo rapporto tra il Festival e la città.
I concerti all’Accademia Carrara e alla Biblioteca Angelo Mai, al Teatro Sociale, in splendidi chiostri e sale di convento, quelli notturni in alcuni locali, le vetrine dei negozi allestite a tema, sono elementi che hanno dato un segno tangibile (insieme a e forse anche più del consueto – e certo rimarchevole – tutto esaurito nelle tre serate al Teatro Donizetti) di una manifestazione che è ora più che mai capace di innestare un dialogo vivo con la comunità di chi la frequenta.
#direttore
In questa prospettiva devo dire che l’entusiasmo e la presenza costante di Douglas in ogni momento delle ricche giornate in cartellone gioca un ruolo fondamentale. Istrionico presentatore (e diligente studente di italiano), ubiquo padrone di casa che non nega mai un sorriso ai passanti che lo interpellano, che assiste a ogni soundcheck e concerto con passione, che si assicura costantemente che le cose vadano bene, il trombettista statunitense si è guadagnato l’affetto dei bergamaschi e la fiducia di un’Amministrazione (penso sia al Comune che alla Fondazione Teatro Donizetti) che ha compreso quanto il pieno supporto della città al Festival abbia delle importanti ricadute di tipo economico e culturale.
Il cartellone allestito (al di là dei gusti e dell’esito – mai scontato – dei singoli concerti) è stato di grande equilibrio e forza; ha premiato – come vedremo – le scelte di Douglas laddove sembravano sulla carta più coraggiose e ha riportato lo spettatore al centro dell’attenzione, riconsegnandogli, specialmente nei luoghi dove l’ormai stanco rituale del concerto viene stravolto e ripensato in funzione dell’occasione, quella centralità di sguardo e di ascolto dialogico che è oggi tra le cose che i festival riescono con più fatica (e a volte un po’ colpevolmente) a provare a innescare.
#linguaggi
Non è quindi una sorpresa che le cose più rimarchevoli di questa edizione di Bergamo Jazz siano state le performance solitarie di Evan Parker alla Biblioteca e di Ernst Reijseger nelle splendide sale dell’Accademia Carrara. Non solo per la statura degli artisti, ma anche proprio in virtù di quanto dicevo qualche riga più su, della capacità di attivare un rapporto non prevedibile con l’ascoltatore.
Il sassofonista inglese ha letteralmente ipnotizzato quanti hanno gremito la sala della Biblioteca, con un solo nel quale la sua ormai storica tecnica (che utilizza la respirazione circolare) a pattern di multiphonics ha generato un vero e proprio fibrillare si suoni e colori. Nella performance ha trovato spazio anche una breve versione di “The Dumps” di Steve Lacy, che ha quasi introdotto il dialogo nell’incontro post-concerto con Francesco Martinelli, traduttore del notevole libro Conversazioni con Steve Lacy (ETS Edizioni).
Un post condiviso da Enrico Bettinello (@enricobettinello) in data: 24 Mar 2017 alle ore 10:48 PDT
Esplosivo e teatrale, irriverente e musicalissimo, il violoncello di Ernst Reijseger ha incantato in mezzo ai quadri della collezione dell’Accademia. Chi ne conosce già il linguaggio sa che non è una novità, ma colpisce come, oltre alla musica di grande bellezza, il musicista olandese riesca ogni volta a comunicare l’aspetto giocoso, interattivo, della performance. Camminando per la sala, tra urla inaspettate e sberleffi a chi lo fotografava, seduto tra il pubblico a farsi “aiutare” nell’esecuzione dalla mano di una spettatrice o chiedendo addirittura a una fotografa di fargli da leggio umano, Reijseger – nel solco della scuola olandese – riporta la performatività al centro del suo recital, non solo come escamotage per catturare l’empatia di chi gli sta davanti, ma anche per spostare l’ascoltatore dalle sue comode attese per renderlo parte attiva di un processo di condivisione artistica.
Un post condiviso da Enrico Bettinello (@enricobettinello) in data: 25 Mar 2017 alle ore 04:06 PDT
Linguaggi che richiedono un’attenzione differente anche nel concerto all’Auditorium, con il gruppo del pianista norvegese Christian Wallumrød. La sua è una musica che si muove tra le pieghe del suono, laddove il silenzio diventa soffio, dove ogni molecola di suono viene posta sotto una lente che consente di viverne la tessitura, tra lunghi drones di harmonium e gocce al vibrafono. Cameristico e molto lontana dal linguaggio afroamericano (direi quasi mortonfeldmaniano in alcuni tratti), quello del gruppo di Wallumrød è stato un concerto certo non facile, ma mi ha colpito come il pubblico abbia rispettosamente seguito le consegne del silenzio e del non uso delle fotocamere dei telefoni, lasciando che la musica – spesso molto interessante – li avvolgesse nella sua apparente inafferrabilità.
#sassofoni
Grande presenza di sassofoni tenore in cartellone. Quello di Jon Irabagon nel trio di Rudy Royston, formazione forse non in serata felicissima, ma capace di momenti molto intensi. Quello di Francesco Berazatti che, grazie alla formula collaudata del quartetto Tinissima, accende il pubblico del Teatro Sociale in nome di Woody Guthrie.
Un post condiviso da Enrico Bettinello (@enricobettinello) in data: 23 Mar 2017 alle ore 13:29 PDT
Quello torrenziale di James Brandon Lewis nell’infuocato quartetto di William Parker (a mio avviso uno dei concerti più belli al Donizetti). Quello suadente di Andy Sheppard, il cui nuovo progetto in quartetto – nonostante la presenza di musicisti di grande pregio – ci è sembrato davvero soporifero e inconsistente. Quello della giovane Melissa Aldana, cui sono andati gli strali più perfidi di molti colleghi con cui ho parlato nel foyer e che alla fine sconta più che altro una sostanziale scolasticità di approccio e una piattezza di fondo della formula in trio con contrabbasso e batteria.
Un post condiviso da Enrico Bettinello (@enricobettinello) in data: 26 Mar 2017 alle ore 23:09 PDT
#donne
Aldana tra l’altro componente di una nutrita pattuglia di musiciste donne (ottimo Douglas sulle “quote rosa”!), che ha compreso anche l’elegantemente prevedibile violino di Regina Carter in omaggio a Ella Fitzgerald e il più vasto progetto della percussionista Marilyn Mazur, che ha riempito di colori elettrici il palco del Donizetti, alla testa di una formazione tutta al femminile in cui spiccava la presenza della sassofonista Lotte Anker e in cui il pubblico maschile era piuttosto “distratto” dalle evoluzioni di una danzatrice. Ma anche la giovane cantante Camilla Battaglia, che ha presentato la musica del suo disco più recente, un progetto (interessante, ma con qualche elemento ancora da mettere a fuoco) che vede anche la presenza di Roberto Cecchetto alla chitarra e di giovani di grande qualità come Bernardo Guerra, Andrea Lombardini, Nicolò Ricci o Federico Pierantoni.
Un post condiviso da Enrico Bettinello (@enricobettinello) in data: 26 Mar 2017 alle ore 12:31 PDT
#giovani
Proprio ai (prevalentemente) giovani talenti del territorio era riservata la bella sezione “Scintille di jazz”, affidata alla curatela del sassofonista Tino Tracanna. I gruppi hanno animato luoghi più o meno inusuali, aprendo a un pubblico differente (e coerentemente in media più giovane) e sfruttando al meglio la prestigiosa opportunità. Tra i gruppi proposti – alcuni dei quali ovviamente ancora in una fase di maturazione – mi sono piaciuti il vigoroso quartetto del tastierista Gianluca di Ienno (forte della presenza di Fulvio Sigurtà alla tromba e Giulio Corini al contrabbasso) e l’articolata musica del contrabbassista Roberto Frassini Moneta (qui sugli scudi la tromba di Gabriele Mitelli), oltre alla già citata Battaglia e alla più tradizionale proposta del trombonista Andrea Andreoli.
#maestri
Al Donizetti spazio anche per due maestri ormai riconosciuti come Bill Frisell e Enrico Pieranunzi. Il chitarrista si è esibito in duo con Kenny Wollesen alla batteria, ottima occasione per attraversare obliquamente i tanti “mondi” friselliani con rinnovata libertà, fuori dagli schemi un po’ prevedibili di alcuni degli ultimi progetti. Al “trattamento” di Frisell sono stati sottoposti felicemente temi come "Lush Life" o "Misterioso", ma anche Bacharach e Dylan, fino al fantastico finale con la rollinsiana "Oleo" sapientemente decostruita.
Pieranunzi invece era insieme alla Brussels Jazz Orchestra: con gli arrangiamenti (davvero scintillanti) del trombettista Bert Joris, una bella scelta di storiche composizioni del pianista romano ha trovato colori che vanno oltre il pur doveroso omaggio alla sua musica. Entrambi i concerti hanno incontrato, come anche pressochè tutti gli altri, l’affetto dei molti applausi del pubblico bergamasco.
#sguardi
Qualche parola per la bellissima mostra di fotografie di Riccardo Schwamenthal, ottimamente curata da Luciano Rossetti nel foyer del Donizetti. Chi ha avuto modo negli anni di frequentare il festival bergamasco ha ben conosciuto la pacata intelligenza, il sorriso e lo sguardo mai banale di Riccardo, che è mancato nel 2016. Giusto quindi ricordarlo attraverso un lavoro fotografico iniziato negli anni Sessanta (si devono a lui alcuni scatti di Coltrane, Dolphy o Rollins in Italia) e che ha sempre mantenuto una sua emozionante singolarità.
#prospettive
Qualche parola anche per l’incontro sulla proposta per una nuova legge sullo spettacolo dal vivo che sta – sperabilmente – procedendo in Parlamento e alla cui costruzione hanno contribuito sia l’associazione dei festival IJazz che quella dei musicisti Midj. In un davvero interessante scambio di opinioni salutato dal Sindaco Gori, dall’Assessore Ghisalberti e dal direttore del teatro Boffelli con una partecipazione non solo di cortesia, il deputato Roberto Rampi ha raccontato con efficacia – e un entusiastico ottimismo – il lavoro che si sta facendo e i possibili traguardi, sollecitato in modo puntuale sia da Gianni Pini (IJazz) che da Antonio Ribatti (Midj).
Al di là della cronaca però, credo che segnalare questo momento sia importante, sia perché il dialogo tra il mondo del jazz e le istituzioni (da sempre faticosissimo) sembra avere qui trovato una buona ipotesi di sintesi, sia perché lo stesso Festival di Bergamo dovrebbe entrare quest’anno a far parte di IJazz ed è chiaro a tutti – sia per lo spessore storico-artistico della manifestazione che per le felici intuizioni strategiche di cui si è detto sopra – che si tratterebbe di un apporto di grande peso.
#futuro
Cosa ci aspetta dunque nel futuro del Bergamo Jazz Festival? Credo che le indicazioni preziose che sono emerse dall’apertura alla città in questa edizione possano essere la base per progettualità sempre più strategiche e coinvolgenti.
Dal prossimo anno il Teatro Donizetti sarà indisponibile per restauri (che erano da tempo annunciati) e si capirà nei prossimi mesi in che modo ovviare alla mancanza di un luogo così capiente. Fatta salva l’importanza di numeri consistenti e nel rispetto della grande fiducia che i bergamaschi ripongono ogni anno nella programmazione delle serate a teatro – oltre 600 abbonati sicuri è un dato che non ha paragoni in altri festival – c’è certamente da consolidare il bel rapporto con gli altri luoghi della città. Girando per le strade (sia di Bergamo Alta che della città bassa), non si può non rendersi conto della ricchezza di luoghi suggestivi e anche il rapporto con le altre istituzioni (la Gamec, quest’anno non disponibile, l’Accademia Carrara, il Bergamo Film Meeting, la Biblioteca, gli spazi del Teatro Tascabile, i locali, solo per dirne alcuni) è fondamentale perché il jazz utilizzi al meglio le sue straordinarie potenzialità di musica che fa crescere una comunità. Ottimo lavoro finora. Da continuare!
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