L'Africa spiegata all'Occidente
Youssou N’Dour e i suoi dischi per il mercato del Nord del mondo
Recensione
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Non c’è verso. Youssou N’Dour non vuole proprio farci ascoltare la musica che propone in patria. Dakar – Kingston (Universal), il suo ultimo album internazionale, è l’ennesima testimonianza della difficoltà di farsi un’idea reale di quello che bolle in pentola nella musica del continente nero: la rappresentazione della musica africana di oggi che riceviamo è nell’insieme solo ad uso e consumo del pubblico del Nord del mondo. Come se non bastasse il filtro di case discografiche grandi e piccole, impresari, organizzatori, anche Youssou N’Dour ci mette del suo.
Schematizzando: prima ha approfittato della collaborazione con Peter Gabriel e ha accettato una certa manipolazione in chiave rock della sua musica. Quando poi sul piano internazionale ha potuto volare con le proprie ali, nei suoi album destinati ad uscire dal Senegal ha proposto una versione della sua musica in cui il rilievo ritmico, l’effervescenza e l’incisività delle percussioni tipicamente wolof - cioè un elemento decisivo del principale filone della musica moderna senegalese che si chiama mbalax, nella cui affermazione Youssou N’Dour ha avuto non poca responsabilità - è ampiamente edulcorato, messo tra parentesi: in molti casi i brani che Youssou N’Dour propone all’estero sono esattamente gli stessi che ha già proposto in dischi destinati al consumo senegalese, solo che nelle versioni per l’export le percussioni sono come l’eufemismo dell’originale.
Il fatto è che Youssou N’Dour è personalmente convinto – senza nemmeno che ci voglia un produttore a farglielo credere – che le percussioni di casa sua siano troppo difficili, troppo indigeste per il pubblico occidentale. Negli ultimi anni poi Youssou N’Dour si è messo ad inventare degli album a tema: eccoci adesso all’album reggae. La vera musica della star senegalese è un’altra cosa: è uno degli esempi più straordinari di musica moderna che l’Africa abbia prodotto negli ultimi trent’anni. È veramente un dispiacere che Youssou N’Dour si ostini a non volersi presentare per quello che è, e preferisca dare di sé un’immagine artistica tutto sommato irrilevante.
Schematizzando: prima ha approfittato della collaborazione con Peter Gabriel e ha accettato una certa manipolazione in chiave rock della sua musica. Quando poi sul piano internazionale ha potuto volare con le proprie ali, nei suoi album destinati ad uscire dal Senegal ha proposto una versione della sua musica in cui il rilievo ritmico, l’effervescenza e l’incisività delle percussioni tipicamente wolof - cioè un elemento decisivo del principale filone della musica moderna senegalese che si chiama mbalax, nella cui affermazione Youssou N’Dour ha avuto non poca responsabilità - è ampiamente edulcorato, messo tra parentesi: in molti casi i brani che Youssou N’Dour propone all’estero sono esattamente gli stessi che ha già proposto in dischi destinati al consumo senegalese, solo che nelle versioni per l’export le percussioni sono come l’eufemismo dell’originale.
Il fatto è che Youssou N’Dour è personalmente convinto – senza nemmeno che ci voglia un produttore a farglielo credere – che le percussioni di casa sua siano troppo difficili, troppo indigeste per il pubblico occidentale. Negli ultimi anni poi Youssou N’Dour si è messo ad inventare degli album a tema: eccoci adesso all’album reggae. La vera musica della star senegalese è un’altra cosa: è uno degli esempi più straordinari di musica moderna che l’Africa abbia prodotto negli ultimi trent’anni. È veramente un dispiacere che Youssou N’Dour si ostini a non volersi presentare per quello che è, e preferisca dare di sé un’immagine artistica tutto sommato irrilevante.
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