La primavera del jazz a Mantova
La rassegna You Must Believe In Spring con Steve Lehman Sélébéyone, Mariasole De Pascali Fera e Tell Kujira
Molto ricca quest’anno la rassegna You Must Believe In Spring, organizzata dall’associazione culturale 4’33’’, che ha portato a Mantova una serie di nomi di primissimo livello, noti a chi segue le vicende del jazz di oggi.
Da James Brandon Lewis a Lisa Allemano, da Roscoe Mitchell, impegnato in un workshop con alcuni dei musicisti impegnati nella rassegna oltre agli studenti del liceo a Steve Lehman, da Maja Ratkje a Gabriele Mitelli in trio con John Edwards e Mark Sanders.
Per chi scrive è stato possibile purtroppo seguire solo due serate per tre set in totale (120 km di viaggio non sono comunque uno scherzo), dei quali qui di seguito diamo conto.
Iniziamo con il doppio concerto di Mariasole De Pascali Fera, quartetto atipico che ha pubblicato nel 2022 un ottimo lavoro d’esordio per Parco Della Musica. Flauti (Mariasole De Pascali), chitarra elettrica (Adolfo La Volpe), batteria e percussioni (Lucio Miele) e, in questa nuova veste, Federico Calcagno (clarinetto basso), non sappiamo se temporaneamente o definitivamente al posto di Giorgio Distante, che nel disco si occupava di tromba, tuba ed elettronica.
Così come nel disco, dal vivo ascoltiamo una musica enigmatica, gravida di pause, silenzi, metamorfica: la chitarra come un metronomo sfasato detta segnali morsi su piani cartesiani che disegnano matematiche anarchiche, larghe, libere. De Pascali mette in atto indagini sui flauti e gioca col respiro, mentre un’elettronica aspra e rarefatta si fa spazio e il vibrafono semina punti interrogativi.
La leader, che ci tiene a precisare di non essere tale, in apertura spiega come nelle composizioni il focus sia sulla relazione tra improvvisazione e composizione e sulla necessità di arginare alcune possibilità e verificare empiricamente cosa il limite porta a fare. Brulica tutta una fauna del fondo in questi suoni: satori, rumori, crolli, astrazioni, cenni, una lingua tesa e affilata che si traduce in un discorso a tratti perentorio e in altri frangenti insinuante; del resto la stessa parola Fera rimanda a più significati: bestia, fiera, ferrosa, ferrita.
Questi campi semantici convergono in tracce sguscianti, sinuose: quella che dà il titolo all’album è un pezzo per flauto solo, il germe da cui ha preso spunto il gruppo, avendo deciso di condividere e allargare alcune strategie a una dimensione collettiva, dove tramite la respirazione circolare entriamo nel regno dell’ipnosi e della ripetizione.
C’è spazio anche per un brano nuovo, una sorta di avant-dub in camera iperbarica, un esercizio di equilibrio tra fasi reichiane e la febbre dell’improvvisazione. Un concerto che ha il pregio di non cadere mai nel consolatorio e di far stare chi ascolta sempre sulla corda.
A seguire tocca a Tell Kujira, un altro quartetto atipico: le due chitarre elettriche di Stefano Calderano e Francesco Diodati con il violoncello e la viola di Francesco Guerri e Ambra Chiara Michelangeli.
Figli di un’ottima intuizione di Ariele Monti che li ha fatti incontrare e reduci da una residenza al prestigioso IRCAM di Parigi, i quattro hanno pubblicato l’anno scorso su Superpang un ottimo disco d’esordio. La dimensione avant-cameristica già apprezzata nelle registrazioni in studio trova conferma dal vivo: una musica sottile, attraversata da una febbre che porta in un altrove rarefatto dove si mescolano, appaiono e scompaiono suggestioni e stimoli da mondi lontanissimi. Un implausibile accenno di hillbilly-bluegrass e quel procedere tutto a inciampi e singulti nel chitarrismo di Calderano dove ritroviamo orme del lavoro di Ian T. Williams dei Battles (una volta Storm’n’Stress e Don Caballero), da lui stesso riconosciuto come un’influenza seminale.
Se questo è il primo segno che colpisce in apertura in generale l’impressione è del suono di un organismo che prende vita e muta forma crescendo e trasformandosi con dinamiche che sembrano biologiche, tanto sono fluide e naturali, quasi obbedissero a un moto browniano elettro-acustico. Tutto uno sfruculiare di pizzichi e sfregamenti e un rimestare nelle pieghe di un mondo dove ombre di molteplici profili fanno capolino per poi dimostrare la loro sapienza nell’arte di sparire: ambient, avant-rock, neoclassica, noise, improvvisazione, minimalismo estatico, psichedelia desertica. Come una jam tra Stars Of The Lid e Kronos Quartet o tra Labradford e Koch, Schutz & Studer; riferimenti parziali, che cercano di catturare la natura mercuriale di un suono che scappa da ogni parte, mantenendosi sempre ad alta quota e lontano da retorica e cliché: stasi, ipotesi, dondolamenti, deragliamenti, ansie free-rock, un vulcano elettrico da cui eruttano lapilli. Qualcuno potrebbe chiamarlo ghost-rock, e forse avrebbe ragione.
Pochi giorni dopo, al teatro Bibiena è il turno di Steve Lehman con il progetto Sélébéyone, quintetto per due sax (l’altro è Maciek Lasserre), due rapper (assieme al senegalese Sélébéyone troviamo Hprizm, noto anche come High Priest, un tempo in Anti Pop Consortium) e batterista (l’ottimo Damien Reid).
La combinazione tra il serrato rap in wolof e quello più lento e filosofico dell’mc afroamericano si innesta benissimo sulle trame ripide e urbane tessute dai sax (soprano e tenore), sorrette dal lavoro fitto e puntuale di Reid. Avant jazz hop memore delle produzioni Thirsty Ear, del groove diabolico e disossato di certo Steve Coleman, dell’hip hop eccentrico e futuristico di Anti Pop Consortium.
Immaginate una crasi tra gli Autechre (anche coverizzati su disco da Lehman) e proprio Coleman e forse ci sarete vicini: il rap in lingua wolof è ipercinetico ed estremamente musicale; sfugge e sguscia ancora più di quello di Kokay, l’Mc dei Five Elements; la scelta però di affidarsi alle basi (Lehman schiaccia play sul pc all’inizio di ogni pezzo) fa perdere un po’ di freschezza e forza al live che altrimenti sarebbe stato davvero esplosivo.
Protagonisti del concerto sono il rapper senegalese col suo incedere personalissimo e imprevedibile, con accenti che cadono in punti sempre diversi e il drumming cruciale e chirurgico del batterista. Ipotizzando un nuovo invidio di musica tramite un’altra sonda spaziale dopo il Voyager, questa musica potrebbe trovare senz’altro posto nella compilation fatta per dimostrare come suona la civiltà umana oggi: tesa, urbana, urgente, siderale.
Un contrabbasso e magari un po’ di dialogo tra i due rapper (il canovaccio invece prevede che le voci non si sovrappongano mai) avrebbe probabilmente giovato ai pezzi, che sono comunque di ottima fattura. Ieratico e seduto Hprizm, incalzante il griot africano. Haiku brevi e fulminanti, appuntiti e senza un filo di adipe. Sélébéyone in wolof significa intersezione, tra culture, tra mondi, tra lingue, e l’operazione è riuscita.
Bello e significativo che in platea ci sia anche Roscoe Mitchell: presente, futuro e passato della musica afroamericana, in perenne movimento, a pochi metri l’uno dall’altro.
Noi, anche se intorno infuriano inverno e tempesta, continuiamo a credere alla primavera e ci diamo appuntamento al 2025 a Mantova, rinnovando i complimenti a 4’33’’ per l’ottimo lavoro svolto ad oggi e che immaginiamo saprà continuare domani.
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