La musica nei luoghi
Rufus Wainwright e i Blonde Redhead nel verde dell'Isola di San Giorgio a Venezia
Recensione
pop
Quanto conta il luogo nella riuscita di un concerto? La risposta è forse prevedibile, ma è sempre interessante riflettere sul rapporto tra la location e la musica dal vivo: un ottimo spunto lo ha fornito la breve rassegna L.i.VE in Venice che ha di fatto riaperto al pubblico, dopo diversi anni di inattività, uno spazio unico come il Teatro Verde dell’Isola di San Giorgio a Venezia.
Costruzione novecentesca, ma ispirazione classica e dai teatri di verzura settecenteschi, il Teatro Verde è indubbiamente un posto incantevole, immerso negli alberi e acceso dai bagliori della laguna e ha visto alternarsi, sul vasto palcoscenico il duo Einaudi/Fresu (che purtroppo non ho avuto modo di ascoltare), l’unica data italiana in solo per Rufus Wainwright e il concerto dei Blonde Redhead, scelte tutt’altro che banali per il periodo estivo.
Da cosa partiamo? Dalla musica o dal luogo? Non è facile decidere, perché le due cose sono piuttosto intrecciate, ma proviamo a partire dalla musica.
Rufus Wainwright da solo, al pianoforte e alla chitarra per qualche brano (con qualche corda che fa le bizze, secondo Rufus per l’umidità in una delle serate meno umide che Venezia ricordi…) conferma il talento che da diversi anni ormai gli si conosce. Ottima voce, sebbene usata in modo un po’ sempre quello, a servizio di una musica fatta di lirismo e ironia, autobiografismo e tradizione. C’è molta America nelle canzoni del cantautore canadese (nonostante il suo sguardo sia talvolta all’Europa), luoghi sonori dove affiorano piccoli effluvi di una storia che fa convivere Randy Newman e Neil Young, Billy Joel e le luci del Metropolitan.
Funzionano bene le cose più recenti come "Montauk" o "Out Of The Game", classici come "Cigarettes & Chocolate Milk", "Jericho" o "Want", molto meno pezzi d’ambizione lirica e scarso gusto come "Les Feux D'Artifice T'Appellent", Rufus è bravo e accorato, ma a tratti sembra un po’ nudo, perduto in mezzo a quel palco gigante (ecco il luogo!) e la distanza dal pubblico – che pure lo sostiene con calore fino all’immancabile "Hallelujah" nei bis – ingigantita dalla buca vuota dell’orchestra, impedisce spesso di creare quell’intimità che un recital di questo tipo richiede.
La questione è simile ma opposta la sera dopo con i Blonde Redhead: il trio ha esperienza e "tiro" e la scaletta è a orologeria, divisa tra le canzoni del più recente Penny Sparkle e le migliori del precedente 23 (come le ottime "Dr Strangeluv" o "Silently"). Avresti voglia di stare appiccicato al palco, a goderti le mossette molto "indie" della cantante Kazuo Makino, a farti investire dal suono della chitarra, a ballare con una birra in mano e invece li vedi lì in fondo e intanto continui a dirti quanto bello è questo posto e i lampi di un temporale lontano si confondono con quelli dei flash dei telefonini – che sbiancano la nuca di quelli della fila davanti e le siepi che dividono i gradoni, ma che mai potranno arrivare alla band – e le luci del Lido appaiono tra i rami e ti sottraggono con perfida poesia una parte delle energie.
Quanto conta il luogo nella riuscita di un concerto? Questa prima parte di L.i.VE in Venice, che tornerà a settembre con Capossela e Noa, ha portato in laguna musica di ottima qualità e ha fatto (ri)trovare al pubblico uno spazio di grande fascino, ma ci ha anche raccontato una volta ancora come le musiche richiedano ciascuna luoghi diversi, a volte intimi, a volte di condivisione di energia.
Perché poi va a finire che qualcuno ti chiede "com’era il concerto di Rufus Wainwright" e tu ti trovi a rispondere "il posto era fighissimo" e tra la domanda e la risposta, anche se per educazione nessuno te lo farà notare, sta crescendo una piccola, curatissima, siepe verde.
Funzionano bene le cose più recenti come "Montauk" o "Out Of The Game", classici come "Cigarettes & Chocolate Milk", "Jericho" o "Want", molto meno pezzi d’ambizione lirica e scarso gusto come "Les Feux D'Artifice T'Appellent", Rufus è bravo e accorato, ma a tratti sembra un po’ nudo, perduto in mezzo a quel palco gigante (ecco il luogo!) e la distanza dal pubblico – che pure lo sostiene con calore fino all’immancabile "Hallelujah" nei bis – ingigantita dalla buca vuota dell’orchestra, impedisce spesso di creare quell’intimità che un recital di questo tipo richiede.
La questione è simile ma opposta la sera dopo con i Blonde Redhead: il trio ha esperienza e "tiro" e la scaletta è a orologeria, divisa tra le canzoni del più recente Penny Sparkle e le migliori del precedente 23 (come le ottime "Dr Strangeluv" o "Silently"). Avresti voglia di stare appiccicato al palco, a goderti le mossette molto "indie" della cantante Kazuo Makino, a farti investire dal suono della chitarra, a ballare con una birra in mano e invece li vedi lì in fondo e intanto continui a dirti quanto bello è questo posto e i lampi di un temporale lontano si confondono con quelli dei flash dei telefonini – che sbiancano la nuca di quelli della fila davanti e le siepi che dividono i gradoni, ma che mai potranno arrivare alla band – e le luci del Lido appaiono tra i rami e ti sottraggono con perfida poesia una parte delle energie.
Quanto conta il luogo nella riuscita di un concerto? Questa prima parte di L.i.VE in Venice, che tornerà a settembre con Capossela e Noa, ha portato in laguna musica di ottima qualità e ha fatto (ri)trovare al pubblico uno spazio di grande fascino, ma ci ha anche raccontato una volta ancora come le musiche richiedano ciascuna luoghi diversi, a volte intimi, a volte di condivisione di energia.
Perché poi va a finire che qualcuno ti chiede "com’era il concerto di Rufus Wainwright" e tu ti trovi a rispondere "il posto era fighissimo" e tra la domanda e la risposta, anche se per educazione nessuno te lo farà notare, sta crescendo una piccola, curatissima, siepe verde.
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