Joe McPhee e Paal Nilssen-Love, la storia del free jazz
Al Centro d'Arte di Padova il duo tra il trombettista e il batterista è un rito emozionante, tra i concerti dell'anno
Nel novembre del 1939, il mese e l'anno in cui Joe McPhee è nato, Duke Ellington ingaggiava Jimmy Blanton e varava quella che sarebbe diventata la più celebre e celebrata versione della sua orchestra. Nel maggio del 1953, quando Joe McPhee di anni ne doveva ancora compiere quattordici, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Bud Powell, Charles Mingus e Max Roach salivano sul palco della Massey Hall per un'esibizione diventata poi leggendaria.
Nel dicembre del 1960, con Joe McPhee fresco ventunenne, Ornette Coleman dava forma e sostanza al capolavoro Free Jazz. Nel 1964, per Joe McPhee l'anno dei 25, prima, a luglio, Albert Ayler registrava Spiritual Unity, poi, a dicembre, John Coltrane entrava in studio per uscirne qualche ora dopo con A Love Supreme per le mani.
Ci ha camminato dentro e se la porta addosso Joe McPhee la storia del jazz. La si percepisce, la si può quasi toccare. È lì, in quel suono immenso, profondo, così vero, nel peso specifico di ogni nota, di ogni frase, nell'autorevolezza, nella presenza, nella toccante spiritualità. A novembre saranno ottanta le proverbiali primavere, ma mai come nel caso del signor Nation Time (disco del '71 che la Superior Viaduct ha appena ristampato in vinile: pigliatelo se vi manca) il tempo ha dato molto, molto di più di quel che ha preso.
La conferma, l'ennesima, qualche giorno fa sul palco del Cinema Torresino di Padova. Compagno di avventura, per il primo concerto di maggio della rassegna curata dal (benemerito) Centro d'Arte, il batterista norvegese Paal Nilssen-Love, che più e più volte volte negli ultimi vent'anni, lungo la rotta Oslo-New York-Chicago (e non solo in duo), ha incrociato le bacchette con gli ottoni e le ance di McPhee.
Impegnato stavolta solo alla pocket trumpet e al sassofono tenore (nella faretra ci sarebbero pure il contralto e il soprano, il trombone a pistoni e la tromba), alternati lungo un'ora e mezza di stupefacenti dialoghi e di scambi scintillanti. All'insegna dell'impatto, certo, dell'energia, delle altissime temperature, ma soprattutto di un lirismo commosso e vibrante di matrice stupendamente ayleriana.
Da pelle d'oca un paio di temi declamati al tenore con solennità e fervore degni di un predicatore del Sud; da occhi sgranati i passaggi più acrobatici e spericolati, con Nilssen-Love abilissimo nel cavare l'impossibile a livello timbrico da un set orientato volutamente verso le frequenze basse (Milfrod Graves docet) e McPhee in versione esploratore delle vie del respiro e del canto (utilizzato per doppiare e arricchire le linee melodiche del sassofono o per far vibrare l'ottone della pocket trumpet). Chiusura inattesa con una versione tutta saltelli e sussulti di “Evidence”, a rendere omaggio al nume tutelare Monk e agli dei festanti del free jazz.
Fin qui, il concerto dell'anno.
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