Jazz & Wine 2018, nostalgia e sguardo verso il futuro
Fra il ritorno dell'Art Ensemble of Chicago, The Thing e molta giovane Italia, il racconto dal festival di Cormòns
Jazz & Wine of Peace 2018: sono sempre stati i confini e le loro violente oscillazioni a scrivere la storia di quell’angolo di Friuli che si chiama Collio, incastonato tra Italia e Slovenia, con un occhio rivolto a Udine e l'altro a Vienna, Gorizia dietro l'angolo e Trieste laggiù in fondo. Una storia da secoli intricata e grandiosa, dolente, drammatica; raccontata oggi che i confini non ci sono più (domani, poi, si vedrà...) dagli scheletri delle casermette abbandonate, dalle garitte vuote, dalle sbarre arrugginite che nessuno alza e abbassa più, dai nomi dei borghi e delle località (Dolegna, Plessiva, Zegla), dei vini (malvazija, ribolla, pinot grigio, tocai) e di chi li produce (Princic, Keber, Jermann, Radikon).
Terre di frontiera per una musica che di frontiera lo è sempre stata. Inclusiva e refrattaria alle definizioni, alle formule precise, fin dai tempi di Buddy Bolden; costantemente impegnata a definire e ripensare la propria identità in relazione al diverso, all'ignoto, all'altrove. Un connubio benedetto, insomma. Attorno al quale da 21 anni Jazz & Wine of Peace costruisce la propria idea di festival. Sempre più extra-large e sempre più diffusa, con un cartellone, per l'edizione 2018, che contava una trentina di eventi (alcuni dei quali in contemporanea) disseminati tra cantine, aziende agricole, ville antiche e palazzi, con il Teatro Comunale di Cormòns sede privilegiata dei concerti serali. Una formula rodata e premiata da un pubblico numeroso e fedele (tanti gli sloveni, tantissimi gli austriaci), con assaggi, bicchierate, degustazioni e tutto il resto a fare da contorno (l'ormai famigerato territorio e le altrettanto famigerate eccellenze).
Notevole, come sempre, il livello delle proposte. A partire dall'appuntamento più atteso: il passaggio in terra friulana dell'Art Ensemble of Chicago. Sul palco del Teatro Comunale l'ultima incarnazione della band simbolo della rivoluzione AACM, guidata dai membri storici Roscoe Mitchell (sassofoni) e Don Moye (batteria e e percussioni) e completata da Jaribu Shahid (contrabbasso), Silvia Bolognesi (contrabbasso), Tomeka Reid (violoncello), Hugh Ragin (trombe) e Dudù Kouate (percussioni).
Operazione nostalgia? Sì e no. Perché se da un lato è innegabile (e inevitabile) l'effetto celebrazione (nel corso della passata edizione sul medesimo palco si esibì l'Arkestra guidata da Marshall Allen, e il tuffo al cuore fu più o meno lo stesso), dall'altro è evidente lo sforzo collettivo di mantenere il discorso iniziato più di mezzo secolo fa sul piano della ricerca, dell'azzardo, della vitalità. Sforzo che a tratti riesce, soprattutto quando è Mitchell a piazzarsi al centro della scena (impressionante per tensione e forza l'assolo al soprano che ha spaccato in due la performance: altro che effetto nostalgia!), o quando il solista di turno si smarca e piega il flusso alla propria volontà (bellissime un paio di escursioni della Bolognesi, di grande impatto le sortite sciamaniche di Kouate). Finale da pelle d'oca con l'immancabile “Odwalla”, a rinsaldare i legami con il glorioso passato e con quel pezzo di Art Ensemble che è in ognuno di noi. Altri cento di questi magnifici anni.
Nulla di nostalgico, e ancora meno di celebrativo, nell'altro concerto-evento del festival: l'esibizione del trio scandinavo The Thing, al secolo Mats Gustafsson (sassofoni), Ingebrigt Håker Flaten (basso elettrico e contrabbasso) e Paal Nilssen-Love (batteria). Qui gli anni di storia sono poco meno di venti, ma la freschezza è quella del primo giorno. Merito di una terroristica vocazione all'eccesso, che si traduce in una spasmodica e lucida (lucidissima!) propensione all'inaspettato. Stavolta nel tritacarne sono finiti un brano di James Blood Ulmer (“Baby Talk”, con Gustafsson sorprendentemente e splendidamente ornettiano al contralto), un impossibile e fulminea rilettura di “St. Thomas” di Sonny Rollins (brividi), un tagliente e truce omaggio al pianista Per Henrik Wallin e la consueta dose di riff assassini, rullate implacabili e sventagliate crudeli (Ayler era e resta il nume tutelare). Delirio in platea, parrucconi in fuga tappandosi le orecchie (che bellezza!) e standing ovation finale strameritata per uno dei concerti dell'anno.
Applausi a catinelle e meritatissimi anche per i Ghost Horse, versione raddoppiata e mutante del trio Hobby Horse. A moltiplicare per due la bellezza, spalla a spalla con i titolari Dan Kinzelman (sax tenore e clarinetti), Joe Rehmer (basso elettrico) e Stefano Tamborrino (batteria), gli alfieri delle basse frequenze Filippo Vignato (trombone), Gabrio Baldacci (chitarra baritono) e Glauco Benedetti (tuba e flicorno tenore). Visto a Novara in occasione del debutto assoluto, un anno e mezzo dopo il sestetto ha spiccato definitivamente il volo. Ancora più fitte e precise le trame, perfettamente a fuoco dettagli e intenzioni, smussati certi spigoli nei contrappunti e nelle dinamiche, accentuata la fascinosa predilezione per l'epica e la coralità. Da qualche parte tra Canterbury (la Canterbury più dolce e sognante), la Dowtown di John Lurie e i gruppi di Bill Frisell degli anni Novanta. Un posto splendido, insomma. Da ascoltare, riascoltare e poi ascoltare un'altra volta.
Non da meno il quintetto Tell No Lies dei bolognesi (chi di fatto, chi d'adozione) Nicola Guazzaloca (Fender Rhodes), Edoardo Marraffa (sax sopranino e tenore), Giulio Orefice (sax tenore), Luca Bernard (contrabbasso) e Andrea Grillini (batteria). Travolgente l'ora e passa di musica, nel segno di una libertà strutturata che si regge su un perfetto (e studiato) equilibrio tra le scorribande anarchiche affidate ai singoli e l'afflato compositivo (irresistibili i temi e accattivanti gli intrecci messi su spartito da Guazzaloca, così come bellissima l'idea del doppio tenore, che rimanda in tempi recenti ai Bigmouth di Chris Lightcap e andando un po' più indietro a coppie mitiche come quella formata da Eddie “Lockjaw” Davis e Johnny Griffin). Da incorniciare e appendere al muro delle meglio cose ascoltate in Friuli gli interventi di un Marraffa come sempre gigantesco per presenza e magnetismo; piacevole scoperta il tenore caldo e fluente di Orefice (talento da tenere d'occhio); splendida conferma il drumming esplosivo di Grillini. Strepitosi.
Da Bologna a Roma, e da quintetto a quartetto, con i Roots Magic: Fabrizio Spera (batteria), Gianfranco Tedeschi (contrabbasso), Enrico De Fabritiis (sassofoni) e Alberto Popolla (clarinetti). In scaletta brani di Charley Patton, Blind Willie Johnson, Pee Wee Russell, Ornette Coleman, Sun Ra, Roscoe Mitchell, Marion Brown: dal blues del Delta al free, dalla New York della scena loft alla Chicago dell'AACM, un lungo filo rosso nel segno di una visione onnicomprensiva della musica nera. Un percorso suggestivo, tracciato con rispetto, energia e vibrante convinzione, tra assoli infuocati (in grande spolvero Popolla) e brucianti accelerazioni.
Capitolo The Bad Plus. I fatti recenti sono noti: a dicembre 2017 l'annuncio che il pianista Ethan Iverson avrebbe lasciato il gruppo dopo più di 15 anni al fianco di Reid Anderson (contrabbasso) e David King (batteria); a gennaio 2018 l'ingresso di Orrin Evans e l'uscita del primo disco a nome del nuovo-vecchio trio (Never Stop II). Qualche mese dopo la prova del palco. Superata di slancio. Ma con riserva. Di slancio nel senso che la band continua a funzionare e a suonare alla grande (soprattutto per merito di quel titano di David King); più jazzy, è vero, un pizzico meno imprevedibile e sagace, ma comunque felicemente assestata su meccanismi rodatissimi e che non sono cambiati poi molto rispetto al passato. Con riserva perché qualcosa però non quadra. Evans è un pianista solido, immaginifico, meraviglioso nel padroneggiare la tastiera, ma non è dotato della corrosiva genialità di Iverson. La sensazione (fastidiosa) è quella di tornare a casa e accorgersi poco alla volta che qualcuno si è divertito a spostare di mezzo metro un quadro, a cambiare ripiano nel frigorifero alla verdura, ad allontanare di un paio di spanne i comodini dal letto, a ridipingere l'ingresso con un colore leggermente diverso. Tutto bello, a tratti bellissimo, ma è difficile sentirsi fino in fondo a proprio agio.
In chiusura un paio di rapide riflessioni e una piccola delusione. Le rapide riflessioni sono dedicate ai “canonizzati” Egberto Gismonti e John Scofield. Il primo si è diviso tra pianoforte e chitarre (acustica e classica, rigorosamente a dieci corde) dando vita a un set composto e solo a tratti emozionante (fissato su nastro con tutti i crismi del caso, pare che l'ECM voglia ricavarne un disco); il secondo ha presentato la sua ultima band, il quartetto Combo 66, snocciolando con ecumenica sapienza tutto il proprio mirabolante repertorio (decisamente meglio i passaggi più blues rispetto a standard e ballad, con un'indemoniata rilettura di “Southern Pacific” a svettare).
Tanta maestria, qualche sbadiglio. La piccola delusione l'ha riservata il quartetto Miller's Tale, ovvero Evan Parker (sax soprano), Mark Feldman (violino), Sylvie Courvoisier (pianoforte) e Ikue Mori (elettronica). Quattro pesi massimi, un set totalmente improvvisato e l'impressione che la proverbiale scintilla stavolta non sia scattata. Capita. Anche nelle migliori famiglie. E anche nei migliori festival. Arrivederci al prossimo Jazz & Wine.
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