Jazz Madrid, finestra sul jazz di oggi
Reportage dal Festival Internacional de jazz de Madrid, tra incontri con le musiche di altre culture e sperimentazione
Districarsi nelle programmazioni del Festival Internacional de jazz de Madrid è sempre un'impresa ardua e il numero di artisti e di eventi del cartellone di quest'anno, più di una cinquantina che si sono susseguiti per tutto il mese di novembre, ha nuovamente fornito un panorama assai denso e variegato di gusti e tendenze del jazz contemporaneo.
L'indicazione della direzione artistica di questa edizione del festival si proponeva di privilegiare i momenti di incontro della tradizione afroamericana con le musiche popolari del mondo – come quelli offerti dall'oudista tunisino Anouar Brahem, della pianista greca Tania Giannouli o del vibrafonista etiope Mulatu Astatke. Noi, nel labirinto delle intersezioni e dei percorsi possibili, abbiamo preferito concentrarci su alcuni momenti di quei linguaggi che in qualche modo, ancora, si cimentano e si orientano verso una prospettiva sperimentale. Ma in ogni caso l'eclettismo del jazz dell'era postmoderna tende a costellarsi di elementi per i quali la ricerca e la sperimentazione non è mai univoca. In questi approcci l'eredità di un certo free e degli anni Settanta restano sullo sfondo, mentre si affacciano qua e là spinte "etniche", minimaliste, classiche, neoromantiche – quindi i linguaggi urbani e le eredità dello swing, del be bop o del funky, con un ventaglio estremamente articolato di prospettive estetiche.
Emblematico in tal senso l'approccio di Steve Coleman and Five Elements, per come l'altosaxofonista statunitense riesce ad approdare da un impianto solidamente funk verso evocazioni afro; attraversando nello stesso tempo, senza soluzione di continuità, territori densi di sperimentalismi e di clusters, con l'improvvisazione collettiva dell'ensemble, quindi ostinati ossessivi su poche note e asimmetrici contrappunti. Decisamente affascinanti e avvolgenti per come su queste basi si dipanano il graffiante lirismo della voce di sax di Colemann unitamente ai fraseggi serrati e irregolari della tromba di Jonathan Finlayson, in un concerto sicuramente denso ed emozionante.
Mentre, in un ensemble come Mostly other people do the killing, è l'ironia a fare da padrona: c'è tutto il gusto di giocare con il materiale, di deformarlo, dal dixie allo swing attraverso le esperienze più estreme del free. Un sound aggressivo che si avvicenda a momenti lirici e suadenti con una serrata giustapposizione di atteggiamenti improvvisativi, fino alla ricerca di emissioni estreme con la voce dell'esecutore nel bocchino del trombone sfociando alla fine in un coinvolgente, accattivante e parossistico swing. E in questo rimpallo di atmosfere stilistiche sicuramente fa da maestro Bill Frisell, sornione e sapiente nel rimescolare le carte, con il suo progetto Music for strings: già, perché qui il gioco degli accostamenti si modella sulle sonorità classiche di un trio d'archi, che si mescolano con le sonorità quasi-steel della sua chitarra. Da un approccio decisamente contemporaneo, sperimentale, si delineano ostinati ed atmosfere minimaliste, con bellissimi lunghi soli pizzicati della viola di Eyvind Kang, quindi rarefatti contrappunti, in un costante processo di scomposizione e ricomposizione del materiale. A fronte di ciò si passa ad atmosfere country blues e quindi di nuovo disegnando contrappunti su accattivanti ostinati, alternando atmosfere jazzistiche ad altre bartokiane. Pregevoli i soli del violoncello di Hank Roberts e della violinista Jenny Scheinman.
E un musicista che si è incontrato sulla traiettoria artistica di Frisell, il pianista Fred Hersch, si presenta con la classica formazione del trio, in una sorta di jazz al quadrato dove il pianista ("il maestro di Brad Meldhau") sviluppa intense improvvisazioni armoniche, atmosfere rapsodiche, scevro di virtuosismi di agilità, sviluppa un fraseggio che, apparentemente involuto, scorre fluido. Si rilassa con un tema beatlesiano, non dei più celebri, "For No One", per poi esplorare Monk, sempre con una sua propria originale profondità armonica.
Abbiamo quindi voluto ascoltare quelle che il Festival ha voluto presentare come novità, giovani musicisti, due sassofonisti con i rispettivi quartetti, la cilena Melissa Aldana e il polacco Maciej Obara. La Aldana si caratterizza per uno stile ed un fraseggio solistico di forte impatto, lirico, estroverso e fantasioso, con una decisa impronta be bop. Ma l'ensemble, specie il piano di Sam Harris, non ci pare la supportasse adeguatamente, con un'impostazione sperimentale eccessivamente divergente. Abbiamo trovato che l'impianto dell'ensemble di Obara fondesse più coerentemente elementi della tradizione jazz con altri più decisamente dell'avanguardia. Suggestive, quasi romantiche, le atmosfere del piano di Dominik Wania, così i suoi lunghi tappeti da cui si sviluppa, da parte del sax, un fraseggio di un melos struggente, irregolare, di colore caldo.
Il duo formato dal pianista Aruán Ortiz e dal sax/clarinettista Don Byron è stato probabilmente, a nostro parere, il momento che in maniera più decisamente intensa e coerente si è fatto interprete di questa tendenza "onnivora", di fusione di tendenze e stili, sicuramente sulla linea di un percorso colto e raffinato. Un percorso nel quale si è potuto assistere ad una graduale elaborazione dei materiali musicali: inizialmente soffuso e meditativo, con i due strumenti che paiono muoversi parallelamente in mondi diversi, sostanzialmente jazzistico quello di Don Byron, più astratto e contemporaneo quello di Ortiz. È un percorso che quindi conduce ad un graduale e progressivo ritrovarsi dei due strumenti in una sorta di blues: un ritrovarsi di elementi motivici che prima si presentavano come disgregati e che, in questa specie di ricomposizione in un fluido swing, ha tutto il senso di una riconquista. Quindi uno swing intenso e serrato che riesce a trasformarsi in un contrappunto espressionistico, con Don Byron che passando dal sax al clarinetto, riesce ad evocare sonorità tribali ma anche tutta la caoticità di una musica urbana.
Un cenno a parte meritano quindi due eventi di musicisti che in forme diverse hanno sviluppato una commistione con i linguaggi del jazz con il flamenco.
Il quintetto creatosi intorno al batterista uruguaiano Guillermo McGill si caratterizza per una particolare estroversione, anche per la spinta propulsiva e sicuramente energica del leader del gruppo. Un gruppo che riesce a creare una forte carica dinamica, con temi di orizzonti stilistici tra i più svariati, che si alternano come una sorta di pot pourrit, con anche una piacevole parentesi di un romantico violoncello, senza che tuttavia una vera ed intima atmosfera flamenca riesca a fare breccia.
Attesissimo il concerto che ha chiuso il festival, con protagonista il sassofonista/flautista Jorge Pardo, che in questi ultimi anni sta riscuotendo tutta una serie di riconoscimenti in Spagna ed internazionali. Il "flautista di Paco de Lucia" è un importante rappresentante di un movimento ha contribuito a creare quella particolare fusione che ormai è una realtà consolidata, quella del jazz flamenco, per la quale le armonie jazzistiche si coniugano con le scale frigie della tradizione gitana. Attivo protagonista delle jam di numerosi jazz club delle notti madrilene, sa modulare il suono del suo flauto come un sofferto lamento di un cante jondo: è un esempio di notevole duttilità strumentale e di una musicalità di grande raffinatezza.
Il progetto che ha presentato, Djinn, con chitarra, basso, batteria, tastiere e un DJ, si caratterizza per una forte spinta funky, una base elettrica bella e pulsante, con tanto di DJ – che però resta sullo sfondo senza che da questa base decolli qualcosa di significativo. Una buona apertura della chitarra spagnola di Rycardo Moreno e un travolgente solo di batteria di David Bao. Quasi avesse voluto mimare il Miles Davis di Tutu – ed anche un po' certi suoi atteggiamenti – Pardo si aggira qua e là sul palco, con rari interventi, privilegiando il sax al flauto. C'è qualche momento pregevole, tipico dei suoi, specie quando prende il flauto, ma la sensazione è che la base, serrata e ben costruita, costituisca quasi una gabbia che impedisca ai musicisti di prendere il volo e di riscaldare il clima, che resta sostanzialmente freddo e un po' artificiale. Un vero peccato, perché anche il pubblico, senza neanche una richiesta di bis, non ci è parso sicuramente coinvolto in questa nuova proposta.
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