Jazz dalla stanza accanto
Marc Ribot in solo incanta il Folkclub
Recensione
jazz
Marc Ribot si presenta al Folkclub in solo, con una elettroacustica ricoperta di scotch e un groviglio di pedali. Saluta, annuncia che suonerà “qualcosa da un mucchio di composizioni per il cinema che ha scritto negli ultimi due anni”. Dice di amare la musica da film, per la sua “capacità di scomparire”, e attacca il primo brano, un pianissimo cinematico e ripetitivo. Qualcuno già si preoccupa, ma è solo il primo sviamento che il chitarrista colloca lungo la serata: un paio di minuti di minimalismo e - senza preavviso - una svisata noise, direttamente da un effetto “Box of Metal”, dal suono crunch degno dei Sonic Youth. Difficile parlare di “pezzi”: Ribot segue un flusso suo personale, che trita standard e li rimonta matematicamente, nevroticamente, ne fa cellula ritmica in uno scorrimento altrimenti dal tactus variabile. Prevalgono lunghe sezioni costruite su un bordone tenuto dalle corde basse, nell’ostentazione di un “virtuosismo del non-virtuosismo” che strappa ammirazione per le idee che lo sostengono, non per la tecnica. Ribot frequenta il blues, cita Django, Gillespie; si permette una cover di “Happiness is a Warm Gun” di bellezza rara; crea rumori passando il dito umido sulla cassa, offre improvvise discese nel noise destrutturato e risalite in un jazz stilizzato, filtrato come se provenisse – come idea, e come suono – dalla stanza accanto, gracchiato da un altoparlante o da un vecchio grammofono. La ricerca del suono è maniacale: una tale estetica del lo-fi esige matematica precisione, così come l’intonazione studiatamente imprecisa delle note. La chitarra è ripresa anche da un microfono, e Ribot spesso azzera il volume dell’amplificatore con il pedale facendo affiorare – e riaffondare – il suono sordo dell’elettroacustica “nuda”. Una poetica dello sghembo ricostruito ad arte, dello scarto parodico che confermano come Ribot sia nella chitarra quello che Tom Waits è per la canzone.
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