Improvvisazioni senza confini
A Šmartno, in Slovenia, il Brda Contemporary Music Festival

Recensione
jazz
Quando si oltrepassa il confine c’è solo un cartello ad indicare che abbiano lasciato l’Italia e siamo entrati in Slovenia. Eppure, da queste parti sono stati versati fiumi di sangue per difendere o spostare quelle sbarre che definivano la terra “nostra” da quella “loro”. Ogni luogo ha scolpito nelle lapidi dedicate alle vittime del fascismo o nelle trincee che ancora feriscono le montagne e le colline intorno all’Isonzo, il ricordo di guerre e massacri. Se c’è qualcosa che invece punta ad unire anziché a dividere è la musica, in particolare quella improvvisata. Dall’11 al 13 Settembre si è svolta nel piccolo paese fortificato di Šmartno nel cuore della regione di Brda sul versante sloveno del Collio, la quarta edizione del Brda Contemporary Music Festival. Ideatore e direttore artistico della manifestazione è il percussionista Zlatko Kaučič, da sempre appassionato musicista, didatta e promotore culturale e infaticabile generatore di incontri transnazionali. La prima giornata ha visto un esperimento inedito ovvero la conduzione a due, Kaučič e il contrabassista Giovanni Maier, dell’Orchestra Senza Confini, formazione composta da improvvisatori sloveni e italiani nata proprio in questo festival.
Il secondo giorno è stato contraddistinto da piccole formazioni. Dopo il solo del sassofonista Cene Resnik sul palco della raccolta e accogliente Casa della Cultura si è esibito il sassofonista isontino Flavio Brumat con i contrabbassisti Jost Drasler e Paolo Franceschinis. Brumat è un musicista che sfoggia al sax tenore un suono pastoso e una enfasi declamatoria che ricorda il free storico di marca coltraniana. Nato nel 1946 e attivo con le formazioni dell’avanguardia regionale, da Phophonix a DobiaLab Orchestra, ha proposto - grazie anche al prezioso lavoro dei due contrabbassisti - un free jazz aggiornato con gusto e fantasia. Un musicista che il Festival ha fatto bene a valorizzare e che meriterebbe ulteriori occasioni di esibirsi. La serata si è conclusa con il duo polacco Microkolektyw formato da Artur Majewsky, tromba, e Kuba Suchar, batteria. Entrambi fanno largo uso dell’elettronica e in particolare di basi a prevalenza ritmica sulle quali sovrappongono ulteriori stratificazioni o improvvisazioni. La musica che ne esce è una sorta di ambient-free che occhieggia neo-tribalisti urbani e memorie del Davis elettrico. Majewsky fa largo uso di soffi e suoni parassiti sulla scia delle ricerche sullo strumento ormai divenute un classico dell’avanguardia.
Il terzo e ultimo giorno del Festival il momentaneo bel tempo ha concesso di poter svolgere le performance previste all’aperto nel pomeriggio, una banda giovanile e un’ensemble di percussioni africane, per poi concludere in serata il programma. Con il quintetto Kaca, Sraca in Lev Giovanni Maier propone proprie composizioni dove i temi,dal netto profilo melodico, sono diluiti in percorso sonoro che lascia ampio spazio a tutti musicisti. Il gruppo funziona secondo una concezione orizzontale, puntando al massimo del dialogo collettivo e della libertà individuale. Particolarmente interessante è il giovane batterista sloveno Marko Lasic, allievo di Kaučič dal quale ha mutuato uno stile scabro e un set percussivo non ortodosso. Oltre a lui il trombettista Gabriele Cancelli, il flautista Paolo Pascolo e il clarinettista Mimo Cogliandro. Sempre maiuscolo Maier, un fuoriclasse del suo strumento, in grado di cavare ogni tipo di suono dal contrabbasso e stupefacente per potenza ritmica, lucidità e creatività. Ma l’importanza di Maier non è solo e squisitamente nella sua bravura strumentale ma anche per il ruolo di catalizzatore di energie e valorizzazione dei nuovi talenti come dimostrano questa formazione e le sue produzioni discografiche con l’etichetta autoprodotta Palomar, dove deve guardare chi voglia saperne di più su quello che si agita nella scena improvvisativa del Friuli Venezia Giulia.
Caratteristica del Festival è l’invito ad ogni edizione di un ospite che svolge un workshop oltre ad esibirsi insieme a Zlatko Kaučič. Dopo Evan Parker, Johannes Bauer e Ab Baars quest’anno è stata la volta del vocalist Phil Minton. Il musicista inglese, settantaquattro anni portati con insospettabile vigore, è uno dei maestri della ricerca sulle possibilità della voce. Si accomoda sul palco sedendosi su una sedia. Accanto a lui Kaučič ha sistemato alcune piccole percussioni e, su una cassetta della frutta verde (!), un’arpa da tavolo bavarese dell’ottocento. Allo strumento il musicista ha applicato un microfono e lo ha reso elettrificato. Quello che succede quando i due cominciano la loro performance è difficile da raccontare. Stupore, rapimento, estasi. Un susseguirsi di invenzioni in un dialogo fitto dove non c’è mai un’incertezza o calo di tensione. Minton e Kaučič producono suoni con una gestualità corporea totale. Pathos e ironia. L’arpa risuona come un arsenale di suoni elettronici percossa e sfiorata con ogni sorta di oggetti, la voce di Minton esplora ogni registro. Ogni oggetto e ogni respiro producono suono. Un fischio e rametti d’albero frantumati. Una esperienza di ascolto rara e illuminante. Un concerto memorabile salutato da un lunghissimo applauso del pubblico.
Come ogni anno il finale della manifestazione prevede l’esibizione dei partecipanti al Workshop diretti dal maestro. In questo caso si è trattato del Feral Choir, ovvero un coro di improvvisazione vocale che Phil Minton sta sperimentando in giro per il mondo dalla fine degli anni Ottanta. Minton conduce i cantanti, non necessariamente professionisti, creando una suggestiva partitura istantanea. L’effetto è coinvolgente. L’energia che si attiva sul palco e tra il pubblico è travolgente.
Anche quest’anno questo piccolo Festival ha saputo aprire una finestra di creatività di alto livello con risorse modeste ma tanta passione e idee. Merito di un ambiente bello e ancora genuino, di scelte artistiche coerenti e coraggiose e di una volontà che non si piega alle convenienze. Un festival prezioso.
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