Il fattore Traffic
Riflessioni sulla nona edizione del festival gratuito torinese
Recensione
pop
L’anno delle mutazione - del cosiddetto “fattore X” - non è stato il decimo ma il nono per il Traffic Festival di Torino. Pur azzoppata nel budget – e quindi nel cast artistico – la rassegna ancora rivendica il suo ruolo – sociale e culturale, prima di tutto – di unico (ultimo?) grande festival gratuito d’Italia. Sia vero o no, al Traffic e alla sua direzione va il merito di aver da sempre portato avanti, con non poche opposizioni e pubblici sgambetti, un proprio coerente progetto culturale.
La “mutazione”, coniugata con l’austherity, ha portato a rivolgere lo sguardo verso la scena elettronica londinese e i suoi immediati dintorni, per offrire lo spaccato di uno dei luoghi chiave della musica avanzata di oggi. Gli xx – vere star dell’anno – hanno offerto una performance di alto impatto emotivo, pur non supportata da eccessivo carisma live (già riscontrato nel loro recente concerto al Primavera Festival di Barcellona – altro festival, ben altre dimensioni). I tre rimangono comunque il gruppo da tenere d’occhio negli anni a venire; averli portati, gratuiti, a Torino, è una scelta artistica che presumibilmente acquisterà valore nel tempo. Chi ha confermato la sua classe dal vivo è stato la loro “spalla”, James Blake, esibitosi sotto la pioggia: interrompere a mezzanotte il suo dj set, fra black music, dubstep e quant’altro è stata, sì, una forzatura. Idem per gli Orbital: due ore di show hanno dimostrato come il suono della scena post-rave sia invecchiato benissimo, e come le sue filiazioni vivano ancora nelle nuove leve di musicisti elettronici. Rinviati a giudizio i Mount Kimbie, capaci di sequenze esaltanti come di momenti di stanca un po’ troppo naïf e sfocati per attirare l’attenzione di una piazza.
Tutto sommato, un successo: per la qualità, e per la risposta del pubblico in rapporto ad un programma nettamente sotto la media per un festival che, negli anni, ha portato a Torino Lou Reed, Nick Cave, Aphex Twin, Daft Punk, Patti Smith, fra i molti. Insomma, la formula, pur “mutata”, funziona ancora.
Ha dunque ragione Max Casacci, uno dei direttori artistici, a rivendicare il ruolo del Traffic come «biglietto da visita della città», considerazione che spesso è passata in secondo piano e ha portato a considerare il festival come un problema di ordine pubblico. La musica non dovrebbe mai essere derubricata a problema di ordine pubblico; e fra le tante deroghe al “pubblico ordine” concesse a Torino negli ultimi anni (adunate, parate, scudetti e quant’altro), quella ad un festival – se concessa - non dovrebbe sembrar cadere dall’alto come una regia concessione.
Si è molto parlato – ad esempio - della sede del festival, finito poi, come lo scorso anno, nella centralissima e splendida piazza San Carlo. Centralissima, splendida, ma non adatta, e non gradita quasi a nessuno: fra i meriti del “primo” Traffic, che aveva trovato la sua perfetta sede nel periferico Parco della Pellerina, c’era anche quello di sdoganare una certa “dimensione festival” europea che, da sempre, gli organizzatori culturali italiani lamentano come mancante. C’era l’idea di uno spazio di aggregazione nella natura dove ascoltare musica, o semplicemente farsi gli affaracci propri ascoltando musica. La centralissima e splendida piazza costringe a volumi mortificanti per certi generi, e ad orari altrettanto mortificanti, con il parterre che viene sgombrato alla mezzanotte in punto.
La riduzione a due sole sere del programma principale, se letta alla luce del contemporaneo vigore con cui nascono nuove manifestazioni sostenute dal pubblico, dal contenuto artistico parzialmente discutibile (vedi Torino Jazz Festival con la direzione artistica di Dario Salvatori) o dal messaggio culturale decisamente discutibile (vedi Mtv Day, sullo stesso palco del Traffic), non fa ben sperare per la decima edizione. Un peccato: l’anno della mutazione non ha convinto in tutto, ma ha mostrato come la piazza si possa riempire anche programmando musica tutto sommato non facile, non di massa, di qualità. Proponendo ascolti, non copiandoli, in virtù di un credito culturale costruito negli anni presso il pubblico locale. Per il resto, c’è già l’altro “X Factor”.
La “mutazione”, coniugata con l’austherity, ha portato a rivolgere lo sguardo verso la scena elettronica londinese e i suoi immediati dintorni, per offrire lo spaccato di uno dei luoghi chiave della musica avanzata di oggi. Gli xx – vere star dell’anno – hanno offerto una performance di alto impatto emotivo, pur non supportata da eccessivo carisma live (già riscontrato nel loro recente concerto al Primavera Festival di Barcellona – altro festival, ben altre dimensioni). I tre rimangono comunque il gruppo da tenere d’occhio negli anni a venire; averli portati, gratuiti, a Torino, è una scelta artistica che presumibilmente acquisterà valore nel tempo. Chi ha confermato la sua classe dal vivo è stato la loro “spalla”, James Blake, esibitosi sotto la pioggia: interrompere a mezzanotte il suo dj set, fra black music, dubstep e quant’altro è stata, sì, una forzatura. Idem per gli Orbital: due ore di show hanno dimostrato come il suono della scena post-rave sia invecchiato benissimo, e come le sue filiazioni vivano ancora nelle nuove leve di musicisti elettronici. Rinviati a giudizio i Mount Kimbie, capaci di sequenze esaltanti come di momenti di stanca un po’ troppo naïf e sfocati per attirare l’attenzione di una piazza.
Tutto sommato, un successo: per la qualità, e per la risposta del pubblico in rapporto ad un programma nettamente sotto la media per un festival che, negli anni, ha portato a Torino Lou Reed, Nick Cave, Aphex Twin, Daft Punk, Patti Smith, fra i molti. Insomma, la formula, pur “mutata”, funziona ancora.
Ha dunque ragione Max Casacci, uno dei direttori artistici, a rivendicare il ruolo del Traffic come «biglietto da visita della città», considerazione che spesso è passata in secondo piano e ha portato a considerare il festival come un problema di ordine pubblico. La musica non dovrebbe mai essere derubricata a problema di ordine pubblico; e fra le tante deroghe al “pubblico ordine” concesse a Torino negli ultimi anni (adunate, parate, scudetti e quant’altro), quella ad un festival – se concessa - non dovrebbe sembrar cadere dall’alto come una regia concessione.
Si è molto parlato – ad esempio - della sede del festival, finito poi, come lo scorso anno, nella centralissima e splendida piazza San Carlo. Centralissima, splendida, ma non adatta, e non gradita quasi a nessuno: fra i meriti del “primo” Traffic, che aveva trovato la sua perfetta sede nel periferico Parco della Pellerina, c’era anche quello di sdoganare una certa “dimensione festival” europea che, da sempre, gli organizzatori culturali italiani lamentano come mancante. C’era l’idea di uno spazio di aggregazione nella natura dove ascoltare musica, o semplicemente farsi gli affaracci propri ascoltando musica. La centralissima e splendida piazza costringe a volumi mortificanti per certi generi, e ad orari altrettanto mortificanti, con il parterre che viene sgombrato alla mezzanotte in punto.
La riduzione a due sole sere del programma principale, se letta alla luce del contemporaneo vigore con cui nascono nuove manifestazioni sostenute dal pubblico, dal contenuto artistico parzialmente discutibile (vedi Torino Jazz Festival con la direzione artistica di Dario Salvatori) o dal messaggio culturale decisamente discutibile (vedi Mtv Day, sullo stesso palco del Traffic), non fa ben sperare per la decima edizione. Un peccato: l’anno della mutazione non ha convinto in tutto, ma ha mostrato come la piazza si possa riempire anche programmando musica tutto sommato non facile, non di massa, di qualità. Proponendo ascolti, non copiandoli, in virtù di un credito culturale costruito negli anni presso il pubblico locale. Per il resto, c’è già l’altro “X Factor”.
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