Il Bergamo di Rava

Si chiude il quadriennio del trombettista alla direzione del Festival

Recensione
jazz
Sulle note del riformato (per l’occasione) quartetto Palatino di Aldo Romano, si chiude “l’era” di Enrico Rava direttore a Bergamo Jazz, un quadriennio che ha fornito a questo Festival (che per collocazione temporale è il "primo" della stagione primavera/estate e quindi sempre atteso con particolare attenzione) non solo ottima musica, ma anche una serie di spunti e indicazioni su cui riflettere.

È un’edizione di alti e bassi, quella 2015 dell’appuntamento bergamasco, comunque complessivamente positiva e premiata da un invidiabile successo di pubblico. E proprio dal pubblico mi va di partire, da questo elemento che più di ogni altro – direi anche comprensibilmente – abita le discussioni e le strategie di chi il jazz lo fa e lo sostiene.

Bergamo Jazz può contare ormai su un serbatoio davvero non comune di abbonati agli appuntamenti serali al Donizetti, oltre seicentocinquanta quest’anno (un 10% in più rispetto alla scorsa edizione), numero che se da un lato fornisce una formidabile base per avere pieno un teatro che ha oltre mille posti, dall’altro in qualche modo “spinge” a inserire in quelle serate anche cose più commerciali e meno convincenti dal punto di vista del disegno curatoriale.

A torto o a ragione alla fine poi nemmeno si può dirlo con certezza, dal momento che la platea delle “sciure” ha applaudito quest’anno convintamente anche cose certo non facilissime (e nemmeno troppo riuscite) come il quintetto di Michael Formanek, magari percependo paradossalmente più “scomodo” l’ascolto da seduti, con le gambe e i fianchi imprigionati dal velluto invece che libri si muoversi, del funk (ormai sbiadito) di Fred Wesley.

È un capitale importante, anche se si ha l’impressione che la formula “evento” (tre giorni musicalmente lussuosi) rischi di attirare al Donizetti una buona percentuale di spettatori che poi durante l’anno non hanno magari con il jazz altra comunanza.

Ormai decisamente “blindati” dal punto di vista del pubblico anche i concerti pomeridiani all’Auditorium, quelli in cui la direzione artistica ha – meritoriamente – “rischiato” di più, proponendo in questi anni una scelta di artisti che ben rappresenta alcune delle eccellenze nei linguaggi meno tradizionali, cose che in altre parti del mondo stanno tranquillamente in prime time, ma che nei festival di casa nostra, tristemente, compaiono di rado.

Anche in questo caso, verificata un po’ alla San Tommaso l’evidenza che anche proposte meno “piacione” hanno un pubblico forte, resta da capire se e quanto di questo pubblico è anche attratto dai “big” serali o si gode semplicemente la nicchia e poi va farsi una birra.

Ma proveremo dopo a tirare qualche somma. Intanto – finalmente direte voi – parliamo dei concerti.

Sono arrivato a Bergamo solo il sabato, “perdendomi” i set del trio di Stefano Battaglia e del duo Coscia/Trovesi, nonché la serata che abbinava la sempre professionale Dianne Reeves al gruppo del batterista Jeff Ballard (su cui ho intercettato quasi unanimi testimonianze di mediocrissima riuscita), ma gli otto concerti che ho potuto ascoltare danno una buona idea dei (tanti) pregi e dei (pochi) difetti del Festival.

Nella lista dei “buoni” troviamo certamente il trio di Vijay Iyer, un po’ inspiegabilmente programmato in Auditorium al pomeriggio, quando avrebbe potuto ottenere gran consenso anche la sera in teatro. Un set all’insegna della generosità (due ore di concerto!) e dell’altissimo livello musicale, quello proposto dal pianista di origine indiana, che ha presentato alcuni pezzi del recente disco Break Stuff e altre cose precedenti (tra tutte l’eccitante rilettura di “Little Pocket Size Demons” di Henry Threadgill).
La formula del trio è rodata e coinvolgente, costruita attorno a moduli ritmici di asimmetrica ipnoticità che si aprono all’eccellente (e a volte torrenziale) ricomposizione operata da un Stephan Crump al contrabbasso e da un Marcus Gilmore alla batteria che si confermano musicisti di sensibilità e inventiva davvero uniche. Qualcosa poteva forse essere asciugato, ma Iyer ha intercettato subito una forte empatia con il pubblico bergamasco e gli ha restituito un’esperienza davvero totale e spesso entusiasmante.



“Vincitori” per me dell’effimero quanto giocoso titolo di “concerto più bello”, i Nels Cline Singers. Li avevo ascoltati a Padova da pochi giorni in formazione a quattro con le percussioni di Cyro Baptista e anche a Bergamo – dove erano in trio, ancora più compatti e efficaci – hanno confermato di essere una band travolgente, in grado di dare un senso preciso all’elettrica commistione di lessici, un senso che va ben al di là del piacere post-modern dello sconfinamento e che trova nell’immensa regia musicale del chitarrista Nels Cline la sua forza formale. Noise, rock, dilatazioni improvvise, costruzioni testurali, è un concerto che si apprezza quasi in apnea e che si chiude con la deliziosa rilettura di “A.I.R. (All India Radio)'” da Escalator Over The Hill di Carla Bley. Decisamente oltre il jazz e capace di raggiungere e entusiasmare altri pubblici: la platea era entusiasta alle 5 di pomeriggio in un auditorium, che sarebbe successo a tarda serata in qualche spazio frequentato da giovani che amano la musica, ma che magari (del tutto legittimamente) non si identificano nei rituali ormai inattuali della fruizione concertistica?



Mi è piaciuto anche il quartetto di Mark Turner, un gruppo a cui Rava teneva molto e che ha aperto la serata di domenica al Donizetti. Tenorista schivo e introverso, attentissimo all’eleganza del suono, di scuola cool anche se attraversato da bagliori inquieti, Turner non è probabilmente un musicista che ha la capacità di “infiammare” i cuori, ma la musica del quartetto mi è sembrata sincera e interessante, fatta di lunghe volute soliste (bravo Ambrose Akinmusire alla tromba, ideali Joe Martin e Justin Brown alla ritmica) e di un incedere brumoso che invita il pubblico a una particolare intimità con il fraseggio. Anche qui le “consuetudini” (le strutture tema/soli/tema, la lunghezza a volte eccessiva delle improvvisazioni) rischiano di ingabbiare dentro un po’ di noia le idee del gruppo, ma il giudizio è certamente positivo.

Accennavamo prima alla delusione del nuovo gruppo di Micheal Formanek. Il contrabbassista è un musicista di primordine e anche i suoi recenti esiti discografici sono notevoli, ma la formazione e la musica presentate a Bergamo non sembrano girare in modo altrettanto convincente, vuoi per una certa difficoltà di scrittura, vuoi perché alcuni dei musicisti non sono sembrati ideali, vuoi perché i sassofoni erano microfonati in modo penalizzante. Solo il finale, con un paio di temi tratti dal repertorio dei dischi Ecm con il quartetto, ha fatto onore a un progetto che evidentemente richiede ancora di essere rodato.

Poche parole su Fred Wesley, trombonista che è sempre un eccellente professionista, ma il cui funk appare ormai di maniera e quasi fuori posto all’interno di un teatro. Non troppo da dire nemmeno su Palatino, che ha proposto un set piacevole e danzante, dove ognuno dei musicisti ha dato, con mestiere e spontaneità, il contributo atteso, da Paolo Fresu al sempre notevole Glenn Ferris al trombone, passando per Michel Benita al contrabbasso e un Aldo Romano che nonostante gli anni mantiene classe e un certo spirito. Gli applausi non sono mancati a entrambi i concerti.

C’è stato modo anche di ascoltare – a tarda sera nel nuovissimo spazio Domus allestito in occasione dell’EXPO – un bel trio di ispirazione ellingtoniana con Guido Bombardieri alle ance, Danilo Gallo al contrabbasso e Cristiano Calcagnile alla batteria; e l’onesto trio del pianista Fabio Giachino, nell’abituale finestra della domenica mattina organizzata dal locale Jazz Club.

Al termine del weekend – e in attesa di sapere chi sarà il successore di Rava alla direzione del Festival, a meno di proroghe a sorpresa – in un clima di rilassata contentezza (tutto ha funzionato ottimamente) e di generale apprezzamento per quanto fatto da Rava in questi anni, più di qualcuno si chiedeva quali margini di crescita e miglioramento possano attendere il bell’appuntamento bergamasco.

Si ha la sensazione che si sia comunque a un punto in cui alcune riflessioni possono essere fatte, anche in previsione di una possibile indisponibilità del Donizetti che attenda da un po’ di essere restaurato.



Chiunque sarà incaricato della direzione artistica trova certo nel Festival una struttura già forte e funzionante (Rava e chi lo affianca hanno lavorato molto bene), che però, paradossalmente, dati gli ottimi esiti di pubblico, non ha quasi margini di miglioramento se lasciata così com’è, al di là del preferire la presenza di questo o quell’artista in cartellone.

C’è piuttosto da lavorare in maniera più diffusa sul territorio (magari togliendo un po’ di centralità al Donizetti), andando a animare spazi e luoghi che possano cementare maggiormente un senso di comunità attorno a queste musiche. Gli altri teatri cittadini, ma anche la Gamec (con cui si è lavorato bene negli anni) e anche spazi meno convenzionali, affiancando ai concerti un’attività di workshop (è un vero delitto che molti musicisti davvero bravi anche dal punto di vista della formazione passino a Bergamo solo il tempo di un soundcheck, una cena e il concerto…), di maggiore dialogo con altre arti e costruendo un senso che non sia solo di “evento”, ma di reale impatto culturale sul territorio.

Sono linee strategiche che rispondono alle migliori pratiche culturali a livello europeo, nulla di particolarmente ardito, eh, ma che da noi sono spesso messe in secondo piano dall’ansia della sala piena e dalle tifoserie stilistiche. Sono linee strategiche che la nuova direzione avrà l’opportunità, se vorrà, di sottoporre alla città, perché Bergamo, grazie agli esiti di questi anni, ha questa potenzialità e varrebbe la pena di sfruttarla, pena l’effetto “salone del mobile”, in cui per pochi giorni tutti sembrano essere esperti e appassionati di design e per il resto dell’anno si fanno un sabato al mese all’Ikea!

Dopotutto Bergamo Jazz è il primo festival di primavera e che qui si possa apprezzare la fragranza dei boccioli di un modo più urgente e comunitario di programmare jazz non sarà che una naturale conseguenza. Da cogliere!

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