Grande musica nera?
Qualche dubbio su Nicole Mitchell a MITO
Recensione
jazz
Ma lunedì sera, il pubblico di Mito che riempiva il Teatro Manzoni, chi ha applaudito (con un calore che – abbiamo avuto la sensazione – ha persino un po' sorpreso i sette musicisti sul palco, il Black Earth Ensemble di Nicole Mitchell)? La Nicole Mitchell, che non è raro trovar considerata come un faro di creatività nelle nebbie del jazz di oggi, o addirittura come una figura in grado di indicare al jazz delle strade per il futuro? O ha invece più semplicemente applaudito una formazione che aveva proposto del garbato intrattenimento, forse non a caso in diversi momenti piuttosto corrispondente all'idea che un pubblico in gran parte non molto addentro può aspettarsi che della musica nera sia?
Non è evidentemente di per sé un male che un set sia un caleidoscopio di di suggestioni diverse: il ritornello vocale della Mitchell e della cantante Ugochi che ricorda atmosfere alla Sun Ra; un riff che fa molto afrobeat; l'esposizione di un tema con un approccio hard bop; il passaggio classicheggiante; il momento cameristico/contemporaneo che si scioglie in improvvisazione jazzistica; il blues d'antan, con la tromba che gioca con la sordina: eccetera. Ma ci sono due problemi. Uno è che – e non è la prima volta che la Mitchell dal vivo ci comunica questa sensazione – tutto questo è un po' all'acqua di rose, e viene servito con una notevole mancanza di tensione, con una sorta – da parte della Mitchell, flautista fra l'altro non prodigiosa, piuttosto banale come improvvisatrice – di candida ingenuità. Il problema supplementare è che da quarant'anni siamo abituati a pensare alla musica che esce dall'Association for the Advancement of Creative Musicians di Chicago (la fucina che ha prodotto l'Art Ensemble - animato da un altro Mitchell, Roscoe - e Anthony Braxton) come fortemente innovativa e sperimentale: e dell'AACM Nicole Mitchell si è trovata ad essere addirittura la presidente. È dall'AACM che è arrivata la fortunata formula di “great black music”, per dire che è “grande musica nera” tanto il jazz che il reggae, la musica africana come Jimi Hendrix. Quella di Nicole Mitchell, per le tradizioni su cui lavora, è senza dubbio “black music”: quanto al “great” ci sarebbe un po' da discutere.
Non è evidentemente di per sé un male che un set sia un caleidoscopio di di suggestioni diverse: il ritornello vocale della Mitchell e della cantante Ugochi che ricorda atmosfere alla Sun Ra; un riff che fa molto afrobeat; l'esposizione di un tema con un approccio hard bop; il passaggio classicheggiante; il momento cameristico/contemporaneo che si scioglie in improvvisazione jazzistica; il blues d'antan, con la tromba che gioca con la sordina: eccetera. Ma ci sono due problemi. Uno è che – e non è la prima volta che la Mitchell dal vivo ci comunica questa sensazione – tutto questo è un po' all'acqua di rose, e viene servito con una notevole mancanza di tensione, con una sorta – da parte della Mitchell, flautista fra l'altro non prodigiosa, piuttosto banale come improvvisatrice – di candida ingenuità. Il problema supplementare è che da quarant'anni siamo abituati a pensare alla musica che esce dall'Association for the Advancement of Creative Musicians di Chicago (la fucina che ha prodotto l'Art Ensemble - animato da un altro Mitchell, Roscoe - e Anthony Braxton) come fortemente innovativa e sperimentale: e dell'AACM Nicole Mitchell si è trovata ad essere addirittura la presidente. È dall'AACM che è arrivata la fortunata formula di “great black music”, per dire che è “grande musica nera” tanto il jazz che il reggae, la musica africana come Jimi Hendrix. Quella di Nicole Mitchell, per le tradizioni su cui lavora, è senza dubbio “black music”: quanto al “great” ci sarebbe un po' da discutere.
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