Fès sacro, Fès profano

Reportage dal festival marocchino dedicato alle "Musiques sacrées du monde"

Recensione
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In un festival dedicato alle "Musiques sacrées du monde" non sarebbe stato male per esempio poter avere dalla viva voce di Homayoun Sakhi, virtuoso afghano di rebab, qualche ragguaglio sulla situazione dell'espressione musicale nella sua patria, dove le idee sul sacro si applicano alla musica in maniera tanto divergente da produrre gli estremi dell'interdizione da parte dei talebani e dell'esaltazione - al massimo grado nell'ambito dell'Islam - da parte di quel sufismo di cui l'Afghanistan è - non meno che dei talebani - una roccaforte.
Ma nel forum che è l'abituale corredo della manifestazione, la fondazione Esprit de Fès, di cui la rassegna è la più importante creatura, preferisce quest'anno parlare non di musica o di temi culturali correlati alle musiche in cartellone, ma - con un effetto un po' surreale - d'altro. Un altro certamente à la page: primavera araba, democrazia, eccetera. Effetto surreale raddoppiato dal fatto che nelle tavole rotonde - un po' all'acqua di rose malgrado la presenza di un Costa Gavras o di un Edgar Morin (che non ha per la verità particolarmente brillato) - si ha l'accortezza di non nominare il Paese padrone di casa se non per dire che il Marocco si era già portato avanti col lavoro imboccando da tempi non sospetti la strada delle riforme...
Cosi le proposte musicali rimangono isolate nel momento spettacolare, non problematizzate, così come non indagate nella loro aderenza all'intestazione del festival. Il virtuosismo di Sakhi e di Salah Nader, suo partner alle tabla, è estremamente godibile e anche divertito pur senza essere corrivo, ma appare alquanto privo di profondità, di dimensione interiore. Del resto Musiques sacrées du monde è lungi dal presentare solo musiche in senso più stretto "sacre", o legate ad una religione, accontentandosi di offrire la testimonianza di musiche portatrici di spiritualità. E se il concetto di "musica sacra" è più definito, dove cominci e dove finisca la spiritualità è meno facile da stabilire. Cosi, se il nesso era piuttosto chiaro e presente a diversi livelli in Leyla et Majmoun, ou l'amour mystique, oratorio-creazione di Armand Amar (il compositore delle musiche del fortunato film ecologista Home), che ha mobilitato cantanti e strumentisti di mezzo mondo, e se perfetto era Cantendi a Deus di Elena Ledda, che affiancata dal Coro di Santu Lussurgiu ha fatto un figurone con la sua rielaborazione di materiali tradizionali della religiosità sarda, meno chiaro è dove stesse la spiritualità nel repertorio di Julia Boutros. Di sacro la cantante ha certamente il fatto di essere - in Libano - una star consacrata: la sua è musica leggera mediorientale, con accompagnamento orchestrale e dovizia di archi, e lei, bella presenza ma cantante piuttosto meccanica, non ha nulla del pathos e del carisma di Feyrouz, della quale viene enfaticamente presentata come l'erede.
Passando dal sacro al profano, il biglietto di buona parte dei concerti costa l'equivalente di una quindicina di euro, con cui a Fès si mangiano tre eccellenti cous cous in un ristorante medio, e infatti il pubblico marocchino latita; i concerti di maggiore richiamo, come quello della Boutros nel magnifico scenario di fortificazioni di Bab Makina, costano addirittura alcune decine di euro. Ma ci sono anche concerti gratuiti, come, domenica sera, quello di Nass el Ghiwane, gruppo epocale - decenni fa - della modernizzazione della musica marocchina: e la grande piazza di Bab Boujloud era gremita di giovani, giovanissimi e famiglie intere, se Dio vuole.

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