Equilibrismi
Riflessioni su Vicenza Jazz “New Conversations” 2015
Recensione
jazz
Congelare due concerti usandoli come chiave di lettura di un festival come quello vicentino-che si snoda per oltre una settimana con proposte ed eventi variegati in molti angoli della città–potrebbe apparire una sospetta forzatura.
In realtà l’esibizione del quartetto di Anthony Braxton al Comunale e quella del trio Mare Nostrum all’Olimpico - oltre a lontananze estetiche e parzialità rispetto al contesto complessivo - fotografano emblematicamente qualche confusione programmatica. La sottolinea (inconsapevolmente?) proprio Riccardo Brazzale – il direttore artistico– nell’introduzione del quartetto americano. Presentare uno dei colossi della musica del secondo Novecento come bilanciamento, contrappeso di un programma – quello di quest’anno, dei festeggiamenti del ventennale – un po’ leggero (sono parole sue) suona alquanto stonato.
In primis, rispetto ad un Comunale caloroso e consapevole, ma soprattutto verso la storia stessa di un festival sempre attento ad una proposizione multidirezionale di qualità, a volte camuffata dietro linee tematiche fantasiose, in una sana confusione che comunque ha funzionato. Vicenza Jazz non può però oggi rischiare di divenire contenitore di proposte pesate e confezionate nella logica degli equilibrismi. Forse servirebbe riordinare le idee, trovare un filo conduttore forte con un pizzico di coraggio in più.
Ma veniamo alla musica. Braxton con i suoi allievi, discepoli, adepti (fate voi) illumina una serata dai colori autunnali. Dopo dubbi e perplessità suscitate dal criptico Echo Echo Mirror House, nell’agilità del quartetto il musicista americano resetta tutto. Costruisce i quadri di una vera istallazione sonora, opera d’arte della quale ci si gode l’architettura che cresce e si sviluppa nelle parti scritte e definite, nelle improvvisazioni, nell’alea. Quadri temporalmente variabili che arrivano ad un climax attraverso intreccio polifonico, minimalismi, contrasti tra volumi, silenzi, duetti, soli. Braxton è in gran forma. Usa il pc per diffondere interferenze che stanno sempre dietro, materia liquida sulla quale galleggiare. Dispensa energia e lampi creativi nei collettivi, negli scambi, si avventura in soli dal caratteristico andamento strozzato, viscerale e dolente, tra soffi, fischi, armonici. Ma è positiva la sua musica, soprattutto nell’elencare alcuni amori mai traditi: Schönberg, Cage, Parker, Coleman, Desmond e Konitz. Dirige, cambia direzioni, spesso si fa cullare dal talento, la completa aderenza espressiva della formazione. Se il ruolo di Taylor Ho Bynum con cornetta, tromba bassa, trombone (con cappello) è consolidata e di grande peso nell’economia della formazione, è la chitarra di Mary Halvorson a sorprendere. Dietro la sua aria da fatina buona si nasconde una delle menti più trasgressive e inquiete degli ultimi tempi. Con le sue corde non solo garantisce costante tensione ma riesce, fuori da ogni cliché, a macchiarla con strappi rock, blues, folk, astrattismi, suoni deformanti. Un vero vulcano di idee. Fatica un po’ di più invece Ingrid Laubrock con le sue ance, deve sgomitare, battersi come una leonessa per trasmettere personalità di fronte ad un maestro così. Insomma se qualcuno pensava che Braxton vivesse la fase del prepensionamento si deve ricredere. Suona, pensa, progetta, compone, fa crescere nuove generazioni di musicisti, soprattutto ricerca sempre la bellezza, incorruttibile e ostinato, tra i confini di generi ed etichette.
Se proviamo a trascinare quest’idea della "bellezza" nella serata di chiusura il condizionamento dell’ambiente che ci ospita è forte: l’Olimpico è uno spazio unico, dove la bellezza domina da qualche secolo. A modo loro, anche Paolo Fresu, Richard Galliano e Jan Lundgren la cercano. Mare Nostrum è un progetto vecchiotto (documentato dal cd omonimo nel 2008 per ACT Music), e la prima sensazione è che siano per primi i musicisti a dubitare su questa operazione di riesumazione.
Un live di Mare Nostrum del 2007.
Nonostante la ricerca di intimità e simpatie attraverso qualche battuta, dediche a nipotine e mogli, aleggia una certa freddezza, che viene costantemente distribuita su tutto il set dove la rotazione tradizionale dei soli pare routine più che spazio creativo dove inventare un guizzo vitale. Sorprende che i tre, riconosciuti paladini della melodia, in realtà non le rendano un gran servizio. La mantengono ancorata ad una visione statica, di basso profilo, rassicurante, in un contesto lineare dove si mette in gioco talento strumentale ma poche idee coinvolgenti. Se la musica possiede anche valore semantico, un mare quieto senza un’increspatura è poco credibile. Tutto già sentito: la poesia intima e lirica di tromba e flicorno di Fresu, il tocco classicheggiante di Lundgren, il virtuosismo di Galliano che con fisarmonica e bandoneón avrebbe potuto accendere qualche luce sul piano dinamico e coloristico. Senza soprese la musica è noia.
In realtà l’esibizione del quartetto di Anthony Braxton al Comunale e quella del trio Mare Nostrum all’Olimpico - oltre a lontananze estetiche e parzialità rispetto al contesto complessivo - fotografano emblematicamente qualche confusione programmatica. La sottolinea (inconsapevolmente?) proprio Riccardo Brazzale – il direttore artistico– nell’introduzione del quartetto americano. Presentare uno dei colossi della musica del secondo Novecento come bilanciamento, contrappeso di un programma – quello di quest’anno, dei festeggiamenti del ventennale – un po’ leggero (sono parole sue) suona alquanto stonato.
In primis, rispetto ad un Comunale caloroso e consapevole, ma soprattutto verso la storia stessa di un festival sempre attento ad una proposizione multidirezionale di qualità, a volte camuffata dietro linee tematiche fantasiose, in una sana confusione che comunque ha funzionato. Vicenza Jazz non può però oggi rischiare di divenire contenitore di proposte pesate e confezionate nella logica degli equilibrismi. Forse servirebbe riordinare le idee, trovare un filo conduttore forte con un pizzico di coraggio in più.
Ma veniamo alla musica. Braxton con i suoi allievi, discepoli, adepti (fate voi) illumina una serata dai colori autunnali. Dopo dubbi e perplessità suscitate dal criptico Echo Echo Mirror House, nell’agilità del quartetto il musicista americano resetta tutto. Costruisce i quadri di una vera istallazione sonora, opera d’arte della quale ci si gode l’architettura che cresce e si sviluppa nelle parti scritte e definite, nelle improvvisazioni, nell’alea. Quadri temporalmente variabili che arrivano ad un climax attraverso intreccio polifonico, minimalismi, contrasti tra volumi, silenzi, duetti, soli. Braxton è in gran forma. Usa il pc per diffondere interferenze che stanno sempre dietro, materia liquida sulla quale galleggiare. Dispensa energia e lampi creativi nei collettivi, negli scambi, si avventura in soli dal caratteristico andamento strozzato, viscerale e dolente, tra soffi, fischi, armonici. Ma è positiva la sua musica, soprattutto nell’elencare alcuni amori mai traditi: Schönberg, Cage, Parker, Coleman, Desmond e Konitz. Dirige, cambia direzioni, spesso si fa cullare dal talento, la completa aderenza espressiva della formazione. Se il ruolo di Taylor Ho Bynum con cornetta, tromba bassa, trombone (con cappello) è consolidata e di grande peso nell’economia della formazione, è la chitarra di Mary Halvorson a sorprendere. Dietro la sua aria da fatina buona si nasconde una delle menti più trasgressive e inquiete degli ultimi tempi. Con le sue corde non solo garantisce costante tensione ma riesce, fuori da ogni cliché, a macchiarla con strappi rock, blues, folk, astrattismi, suoni deformanti. Un vero vulcano di idee. Fatica un po’ di più invece Ingrid Laubrock con le sue ance, deve sgomitare, battersi come una leonessa per trasmettere personalità di fronte ad un maestro così. Insomma se qualcuno pensava che Braxton vivesse la fase del prepensionamento si deve ricredere. Suona, pensa, progetta, compone, fa crescere nuove generazioni di musicisti, soprattutto ricerca sempre la bellezza, incorruttibile e ostinato, tra i confini di generi ed etichette.
Se proviamo a trascinare quest’idea della "bellezza" nella serata di chiusura il condizionamento dell’ambiente che ci ospita è forte: l’Olimpico è uno spazio unico, dove la bellezza domina da qualche secolo. A modo loro, anche Paolo Fresu, Richard Galliano e Jan Lundgren la cercano. Mare Nostrum è un progetto vecchiotto (documentato dal cd omonimo nel 2008 per ACT Music), e la prima sensazione è che siano per primi i musicisti a dubitare su questa operazione di riesumazione.
Un live di Mare Nostrum del 2007.
Nonostante la ricerca di intimità e simpatie attraverso qualche battuta, dediche a nipotine e mogli, aleggia una certa freddezza, che viene costantemente distribuita su tutto il set dove la rotazione tradizionale dei soli pare routine più che spazio creativo dove inventare un guizzo vitale. Sorprende che i tre, riconosciuti paladini della melodia, in realtà non le rendano un gran servizio. La mantengono ancorata ad una visione statica, di basso profilo, rassicurante, in un contesto lineare dove si mette in gioco talento strumentale ma poche idee coinvolgenti. Se la musica possiede anche valore semantico, un mare quieto senza un’increspatura è poco credibile. Tutto già sentito: la poesia intima e lirica di tromba e flicorno di Fresu, il tocco classicheggiante di Lundgren, il virtuosismo di Galliano che con fisarmonica e bandoneón avrebbe potuto accendere qualche luce sul piano dinamico e coloristico. Senza soprese la musica è noia.
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