Don Byron: chi l'ha visto?
Il quartetto del clarinettista americano non incanta sul palco del Pinocchio Live Jazz
Recensione
jazz
Il nome, come la storia che si porta dietro, non è sempre una garanzia. Lo ha percepito bene il folto e caloroso pubblico che riempie il Pinocchio Live Jazz per The Don Byron Quartet. Sulla carta un evento, nella realtà qualcos’altro. Dopo due set lunghi, quasi tre ore di musica, anche estenuanti, molti si chiedono: ma che fine ha fatto il Don Byron ricercatore, curioso indagatore di musiche klezmer, di ritmi caraibici, di funk e hip hop, il collaboratore di Frisell, Steve Coleman, Uri Caine? Apparire per dimostrare di essere grande clarinettista, un ottimo sassofonista, un modesto cantante non è credibile. Lo sappiamo tutti. Allora perché questo quartetto di stelle? Spaziare su tutti i repertori non può voler dire non avere un’idea in testa, un progetto, viaggiare a vista. Eppure così è andata. Un primo set sconclusionato, costruito su lunghi pedali del pianoforte dove il musicista americano si appoggia svogliato alternando le ance, costruendo poco o nulla se non l’abbozzo di qualche panorama sonoro rarefatto. Grande tecnica, e poi? Un “Body and Soul” strascicato senza capo né coda. La ritmica si adegua, tre grandi che si muovono come bravi turnisti. Va meglio nella seconda parte. Un lungo viaggio meditativo, maggiore concentrazione, interazione. Il pianoforte di Simon non è più decorativo ma smonta melodie, metabolizza ritmi. Brown graffia con il suo legno caldo. Betsch supera pigrizie e costruisce un tappeto ricco di sfumature ed accenti. Don Byron a sua volta cerca qualcosa, alterna momenti free a classicismi, usa il tenore come se suonasse nella sezione di Ellington, fa vibrare il clarinetto tra tradizione e contemporaneità. Chiude un “Giant Steps” lento e dolente, come per scavare nel profondo l’anima coltraniana. Finalmente. Ma è troppo tardi.
Interpreti: Don Byron clarinetto, sax tenore - Edward Simon pianoforte - Cameron Brown contrabbasso - John Betsch batteria
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