Davis, Malle, Antonioni, Hancock...

È un buon momento per chi ama il jazz e il cinema

Recensione
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È un buon momento per chi ama il jazz e il cinema. Mentre aspettiamo che arrivino sugli schermi italiani i film su Miles Davis, Chet Baker, Nina Simone e Enrico Rava – qualcuno preceduto da una discreta dose di critiche e polemiche – ci gustiamo qualche evento significativo di casa nostra. Anzitutto il ritorno del classico Ascensore per il patibolo, rimesso in circolazione in primavera dalla Cineteca di Bologna, ma ancora visibile in diverse rassegne estive. Rivedere il film restaurato ha di nuovo sollevato qualche discussione: non c’è dubbio che il film, girato da un Louis Malle venticinquenne, abbia segnato uno spartiacque nel rapporto tra jazz e cinema, ma a quasi sessant’anni dalla sua uscita ci si chiede se sia davvero un capolavoro, o non piuttosto l’opera prima di un regista talentuoso che faceva ancora fatica a tenere insieme registri diversi, sottotrame, personaggi secondari e che trovò proprio nel contributo di Miles Davis il collante delle sequenze più riuscite.

In fondo quando pensiamo ad Ascensore per il patibolo l’immagine che ci torna in mente è quella di Jeanne Moreau che vaga per i boulevard, immersa in una solitudine notturna esaltata dalla tromba di Davis. Il resto del film sembra scomparire, e questo è un complimento a Malle e Davis ma anche un segno di debolezza di un’opera che, al di là del culto, qui e lì scricchiola. Il film è discusso anche nel nuovo libro di Guido Michelone, Il jazz-film (Arcana), ampliamento e profonda rielaborazione di un testo più smilzo, ormai introvabile, di qualche anno fa. Si tratta di una guida critica indispensabile, peraltro unica nel nostro panorama editoriale: non esaustiva e forse neanche adatta a una consultazione rapida, ma fondamentale per orientarsi in un campo che a torto si crede limitato, e che invece offre una varietà di approcci sorprendente. Il libro non si limita a rubricare tipologie ed esempi ma, a differenze di analoghe guide anglosassoni, offre contestualizzazioni e giudizi critici circostanziati.



Anche solo a sfogliare il volume, si comprende come il matrimonio tra jazz e cinema rimane quanto meno tormentato, dagli esiti diseguali, e sembra lasciare sempre insoddisfatti gli appassionati di jazz che, meno inclini a valutare la qualità cinematografica del prodotto, cercano sullo schermo una sorta di verità, di fedeltà ai fatti, di riscatto realistico che dimostri al mondo la forza e il valore della musica africano americana.

Per non parlare della frustrazione dei musicisti, che spesso vedono il loro lavoro sacrificato sull’altare delle necessità narrative e di montaggio, lì dove invece il jazz ha bisogno di spazio, respiro, tempi lunghi (e Louis Malle lo aveva compreso più di chiunque altro). Il caso paradigmatico è Blow Up di Michelangelo Antonioni (1966), che volle a tutti i costi Herbie Hancock come compositore della colonna musicale. Nella autobiografia Possibilities (pubblicata in Italia di recente da Minimum Fax) Hancock dedica poche righe a quella spiacevole esperienza. Spiacevole perché dopo essere stato corteggiato da Antonioni, dopo aver composto diversa musica e averla registrata ben due volte (una prima, fallimentare sessione in Inghilterra e poi una seconda negli USA), Hancock va al cinema a vedere il film e, seduto in sala, scopre che del suo lavoro sono rimasti solo pochi, insignificanti frammenti. Un esito che per chi lavora nel cinema è sempre in agguato, ma che non smette mai di deludere che vi ha contribuito.



La colonna sonora fu poi registrata su disco, ma tra album e film e altri documenti si notano varie discrepanze. Ora a cinquant’anni dall’uscita del film, il 23 luglio a Fano Jazz by the Sea, al Teatro della Fortuna, viene presentato lo spettacolo-concerto Blowin’ Up. Jammin’ with Herbie Hancock, a cura di Eugenio Giordani e Marco Salvarani, in cui un gruppo di eccellenti musicisti marchigiani ricostruisce la colonna sonora integrale di Hancock e la presenta per la prima volta al pubblico, accompagnandola con immagini del film. Un lavoro al tempo stesso filologico e ludico, che finalmente ci offre l’opportunità di ascoltare integralmente lo sforzo creativo di Hancock. A dispetto del capolavoro di Antonioni.

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